C’è chi crede che esistano una mente scientifica (come quella di Newton e Galileo) e una mente letteraria (come quella di Dante). E c’è chi crede che oggi, a scuola e nella cultura condivisa, ci sia bisogno di più Galileo e di meno Dante. Ma tra Dante e Galileo non dovrebbe esserci conflitto. C’è solo se allo studio della storia e alle argomentazioni razionali si sostituiscono gli aneddoti e il paradosso e se il gusto della provocazione conta più della soluzione dei problemi.

1. Nell’estate del 2015 sono andato al Futura Festival di Civitanova Marche. Il giorno prima del mio arrivo aveva parlato Piergiorgio Odifreddi, con grande successo di pubblico; e una persona colta, non a digiuno di cose dantesche, mi ha chiesto che cosa ne pensavo di un’idea del matematico impertinente: e cioè che sarebbe ormai provato che gli ultimi canti della Commedia non li ha scritti Dante Alighieri ma uno dei suoi figli.

Cado dalle nuvole, penso a qualche ricerca recentissima che ignoro; poi ipotizzo che Odifreddi abbia orecchiato e mal inteso gli studi di un mio bravo collega, Riccardo Viel, sulla possibilità che gli ultimi canti del Paradiso si siano diffusi in maniera separata rispetto al resto del poema e sul ruolo di Iacopo Alighieri nella pubblicazione dell’opera del padre.

Al ritorno, incuriosito, mi procuro Il giro del mondo in 80 pensieri di Odifreddi (Rizzoli, 2015) e leggo il pensiero che s’intitola La Quarta Cantica, dedicato a Dante (pp. 285-89). Mi sbagliavo. Nessuna nuova scoperta, nessun fraintendimento di raffinate ricerche in corso: è Odifreddi che ha fatto la scoperta. La storia potrebbe finire qui, basterebbe dire che è falsa, che l’ipotesi non ha fondamento. Ma l’episodio non è interessante perché Odifreddi sbaglia, quanto per i motivi che lo fanno sbagliare e per il modo in cui lo fa. E anche perché, sbagliando, Odifreddi mette allo scoperto alcune gravi debolezze tipiche degli studiosi che, come me, si occupano professionalmente di Dante Alighieri.

2. Prima di annunciare la scoperta, Odifreddi espone le sue opinioni generali su Dante. Innanzitutto, Dante va ridimensionato. E quindi quello che abbiamo imparato a definire “il padre della lingua italiana” sarà solo un «umanista del suo tempo, intriso di superstizioni medievali» (p. 285). Odifreddi ha buon gioco, sia perché l’immagine tradizionale del Sommo Poeta (come spesso ancora oggi scrivono alcuni studiosi) è quella di un saggio infallibile dalla memoria portentosa, sia perché, a voler credere a certe tendenze della critica dantesca, Dante conosceva a menadito ogni opera filosofica e scientifica disponibile nel Medioevo (e a volte gli si attribuisce anche la conoscenza di quelle che nel Medioevo non erano accessibili). Ma Odifreddi non si accontenta delle carte che ha in mano, ha bisogno di bleffare. Basta aver fatto un buon liceo per sapere che definire Dante un umanista è un’affermazione azzardata; che sia invece «intriso di superstizioni medievali» è lapalissiano, ma a Odifreddi piace precisarlo perché sa che il suo lettore sarà facilmente portato a riconoscere che sì, Dante non doveva essere poi tanto intelligente se viveva nel Medioevo.

3. L’altra carta che può utilizzare con successo è quella del prestigio della cultura scientifica. Quando nota che Dante era «sapiente di Aristotele e Tommaso d’Aquino», «ma ignorante di Euclide e Fibonacci» (p. 285), Odifreddi conta sul consenso unanime dei suoi lettori, perché sa che buona parte di loro ritiene più importante conoscere un po’ di matematica piuttosto che la filosofia e soprattutto la teologia. La carta è talmente forte che Odifreddi può sottovalutare il fatto che Dante probabilmente Euclide un po’ lo conosceva (per via indiretta) e che è del tutto evidente che possedesse una cultura scientifica di buon livello per le competenze medie della sua epoca. Certo, anche questa posizione può essere considerata una reazione alla generale sovrastima da parte degli studiosi di Dante.

Persino in un bel saggio di un bravo divulgatore come Pietro Greco 1, il ruolo di Dante rischia infatti di essere sovradimensionato. Greco lo considera infatti il principale teorico e pioniere della divulgazione delle conoscenze scientifiche in Italia. Ebbene, questa immagine di Dante è imperfetta quasi quanto quella di un Dante “ignorante di Euclide”. A parte Dante, nell’Italia a cavallo tra XIII e XIV secolo c’è in realtà molto altro: c’è soprattutto un ampio fenomeno di volgarizzamento di testi medici, scientifici, geografici e astronomici all’interno del quale Dante si colloca e che non è lui a creare né a dirigere. Il Convivio, nel quale Dante offre a chi non sa il latino un imponente complesso di nozioni scientifiche, è un’opera importantissima, che però ha ben poco successo nel Trecento. La scienza in volgare si diffonde nella Penisola per altri canali; Dante intercetta e interpreta in maniera geniale questa tendenza alla “democratizzazione” del sapere scientifico, ma il processo non si compie solo attraverso di lui.

Insomma, una lode eccessiva del padre della lingua italiana finisce a volte per nuocergli, come in fondo gli nuoce l’idea, piuttosto diffusa tra i professionisti della materia, che nelle scuole debba esserci più Dante 2. Nelle scuole c’è soprattutto bisogno di uno studio più intenso della storia, della storia della letteratura, della lingua, dell’arte, della scienza 3. Allo stesso modo, gli studi danteschi avrebbero forse bisogno di meno Dante e di più storia, più scienza, più sociologia, più antropologia e così via. Solo in questo modo Dante può essere restituito alla modernità, non certo aumentando le ore di lettura della Commedia.

4. Ancora più interessante è che il prestigio della cultura scientifica consente a Odifreddi di rinunciare a ogni altra cultura.  Questa impostazione mi sembra evidente quando arriva al nocciolo del suo pensiero. Per parlare delle possibili riscritture della Commedia, Odifreddi prende spunto dai saggi di Jorge Luis Borges e da un romanzo (La quarta cantica di Patrizia Tamà) che mette al centro della storia l’alchimia e immagina che sia esistita una ulteriore cantica nella quale Dante avrebbe svelato i misteri di quella disciplina. Per quanto strano possa sembrare, a Odifreddi lo spunto piace e finisce per sembrargli plausibile; ricordando che anche personaggi come Newton dedicarono molti sforzi all’alchimia, ne deduce infatti che «se persino la mente scientifica di Newton era caduta vittima del morbo alchemico, figuriamoci se non poteva cascarci anche la mente letteraria di Dante» 4. Da questa frase discendono tutti i ragionamenti successivi.

Il problema è che in questa frase quasi tutto è sbagliato. Innanzitutto, che cos’è una mente scientifica? E che cos’è una mente letteraria? Se Newton credeva nell’alchimia (come pure a una cronologia geologica basata sulla Bibbia), si può dire che avesse effettivamente una mente scientifica? E un poeta come Dante, che apre una sua canzone (Io son venuto al punto de la rota) con una perifrasi astronomica che nessuna persona di media cultura scientifica saprebbe oggi interpretare senza un buon commento, che inserisce nel Convivio lunghe digressioni sulla struttura del cosmo (come era inteso al suo tempo, ovviamente) e che, se la Quaestio de aqua et de terra è davvero opera sua, in tarda età interviene in una disputa scientifica – ma scientifica, chiaramente, dal suo punto di vista – sul rapporto tra i mari e le terre emerse, ebbene dovremmo credere che avesse invece una mente letteraria e basta? Dante aveva un’ottima conoscenza osservativa dei cieli, con tutta la precisione consentita dal sistema tolemaico. Insomma, possedeva i dati sperimentali (ovviamente quelli disponibili a occhio nudo). E forse oggi pochi laureati in Fisica potrebbero competere con lui in questo campo. Ma tutto questo a Odifreddi non interessa: la distinzione tra mente scientifica e letteraria gli serve solo per sostenere la superiorità tout court di quella scientifica e della sua mente, in particolare. 

5. Che cosa crede infatti di aver scoperto con la sua mente scientifica? Odifreddi parte da un episodio narrato da Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante, la più antica biografia del poeta: morto Dante, non si trovano gli ultimi tredici canti della Commedia; ai figli viene chiesto di completarla, ma alla fine Dante appare in sogno al figlio Iacopo e gli mostra dove è nascosto il resto del poema. Odifreddi non si fida di Boccaccio (e fa bene), ma si fida un po’ troppo della propria intelligenza. Dovrebbe essere chiaro che il sogno è un’invenzione letteraria; ma Odifreddi va oltre e secondo lui non ci vorrebbe molto a immaginare che cosa è successo: «semplicemente, Iacopo aveva terminato il poema, ma per ragioni di marketing voleva attribuirne la paternità a Dante» (p. 288). Ma c’è di più. Forse si erano persino messi d’accordo, Dante e Iacopo. La prova sarebbero i versi 7-8 del canto XXV del Paradiso, «con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta», che per Odifreddi alluderebbero al cambio d’autore e che però significano tutt’altra cosa.

Odifreddi, per darsi ragione, ricorre a uno strumento retorico ben sperimentato: nessuno ha mai avuto il coraggio di dire quel che lui ora sta dicendo perché «la Commedia è diventata una specie di Bibbia, e come tale non si presta a discussioni razionali né su questa, né su altre cose» (p. 288). Ancora una volta si parte da un punto di vista dopotutto condivisibile: la Commedia è un caposaldo dell’identità italiana, non solo letteraria, e da molti studiosi e dai lettori comuni è vista come un monumento da venerare; ed è certamente vero che nella critica dantesca, come in quasi tutti i campi di ricerca relativamente ben consolidati, le idee nuove emergono con difficoltà. Ciò non vuol dire che un’idea eterodossa sia di per sé giusta. E soprattutto non è per nulla evidente che l’ipotesi di Odifreddi possa rientrare nella categoria delle “discussioni razionali”. Sia chiaro, l’idea non è in sé logicamente contraddittoria; ma è certamente insostenibile perché impossibile da provare o da falsificare. A parte l’indimostrabilità dell’ipotesi, il problema è che ammettendo che sia vera Odifreddi o chiunque altro volesse sostenerla dovrebbe trarne conclusioni onerose. Ad esempio che se gli ultimi canti li ha scritti Iacopo lo ha fatto esattamente come avrebbe fatto il padre, con la stessa abilità tecnica che qualsiasi lettore ingenuo non esita a riconoscere all’autore della Commedia e che è comprovabile nel dettaglio da moltissimi punti di vista; mentre quando scrive la sua opera in versi, il Dottrinale (che tra l’altro contiene anche un’esposizione della struttura del poema paterno), Iacopo fingerebbe di trasformarsi in un poeta mediocre. Fortunatamente la storia non obbedisce alla logica; e non si può accertare il grado di plausibilità di un evento storico solo per via di deduzione.  

6. Quella che viene dopo è una dimostrazione del procedere razionale della mente scientifica di Odifreddi. A suo giudizio, il parallelo tra la Commedia e la Bibbia è giustificato dal fatto che per millenni si è ritenuto il Deuteronomioopera di Mosè scoprendo poi che «in realtà l’aveva scritto Giosia» (p. 288). Lasciamo perdere chi sia l’autore del Deuteronomio; il parallelo non sta in piedi perché di Mosè non sappiamo quasi nulla e di Dante invece sappiamo relativamente molto. Sappiamo ad esempio che ha scritto la Commedia, anche se non c’è nessun autografo. Odifreddi ritorna quindi al punto da cui era partito, le riscritture della Commedia. Se il poema sacro non si può riscrivere, dato che Dante non l’ha nemmeno finito, ci si può invece chiedere come andare oltre. E secondo Odifreddi la Commedia sarebbe già stata superata da altri poeti «di nome Galileo o Newton» e da altri poemi, intitolati Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo o Princìpi matematici della filosofia naturale: «Poemi che sarebbe ora prendessero il posto del suo, o almeno gli si affiancassero, nei programmi scolastici e nella considerazione dei sedicenti uomini di cultura» (p. 289).

In questo caso, Odifreddi un po’ di ragione ce l’ha. Nei programmi scolastici italiani ci sarebbe certamente bisogno di più di cultura scientifica 5. Odifreddi non è però il primo a essersi accorto di questa mancanza: se n’era reso conto Giacomo Leopardi nel 1827 quando nella Crestomazia della prosa italiana inseriva un’ampia scelta di brani di Galileo e se ne sono accorti gli editori di alcuni nuovi manuali scolastici che hanno delle sezioni specifiche riservate agli scritti degli scienziati italiani. Tuttavia, Odifreddi ama il paradosso e deve quindi auspicare che il Dialogo sopra i due massimi sistemi prenda il posto della Commedia. E lo fa perché non riesce a uscire da un sistema di pensiero in cui la mente letteraria e la mente scientifica devono trovarsi necessariamente in conflitto. Per questo crede che la Commedia sia patrimonio di «sedicenti uomini di cultura» e che gli uomini di cultura veri, quelli come lui insomma, debbano smettere di perdere tempo con Dante e dedicarsi invece a Galileo e a Newton.

Ebbene, la conflittualità tra mente scientifica e mente letteraria è tutta moderna: Odifreddi sbaglia bersaglio proprio perché né in Dante, né in Galileo è possibile riscontrare una netta separazione tra scienza e letteratura. Dante non era uno scienziato, eppure sapeva di scienza; Galileo era uno scienziato, ma anche un fine letterato che si occupò di annotare l’Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata e per studiare la conformazione topografica dell’Inferno descritto nella Commedia. E inoltre per le ricerche di Galileo la lettura di fonti (scientifiche) antiche era un impulso fondamentale 6. Dunque Galileo aveva una mente scientifica o una mente letteraria? Dobbiamo rinunciare a Dante o a un’idea del tutto inattuale del conflitto tra le due culture come quella fatta propria da Odifreddi? 7

7. Ma tra Dante e Galileo, come ho già detto, non dovrebbe esserci conflitto. Ciò non toglie che i problemi che pone, malissimo, Odifreddi, sono due, e sono molto concreti. Primo: il culto di Dante può effettivamente ostacolare il rinnovamento degli studi letterari e mettere in ombra grandi capolavori come i Dialoghi di Galileo. Secondo: oggi, in Italia, c’è bisogno di più cultura scientifica e di più storia della scienza. La soluzione però non è eliminare Dante: è studiare Dante e Galileo nel loro tempo o attraverso Dante e Galileo approfondire la storia, la cultura e la scienza del Medioevo e dell’età moderna. Senza trasformare il poeta e lo scienziato in eroi romantici che si aggirano in terre desolate.

[Una versione più breve di questo articolo è apparsa su “Le parole e le cose” il 16 ottobre 2015, con il titolo ‘Il Paradiso taroccato. Piergiorgio Odifreddi, dantista’.]

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Notes:

  1. P. Greco, La scienza in Europa. Dalle origini al XIII secolo, Roma, L’Asino d’oro, 2014.
  2. Lo diceva qualche anno fa Claudio Giunta: http://www.claudiogiunta.it/2009/03/dante-nel-pomeriggio/.
  3. Alcune ragioni le spiego qui: https://www.marcogrimaldi.com/2020/04/04/il-duecento-a-scuola/.
  4. Newton credeva anche che la scienza, seguendo l’esempio della teologia, dovesse enunciare verità assolute: un’idea decisamente distante da quella moderna (cfr. Lucio Russo, Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, Milano, Mondadori, 2018 pp. 142-143).
  5. Benché qualcuno si ostini a sostenere il contrario, come Martha Nussbaum in Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Bologna, il Mulino, 2011. E anche Ernesto Galli della Loggia, in un libro per molti aspetti condivisibile, ritiene che nella scuola attuale vi sia una “egemonia” del sapere scientifico (cfr. L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Venezia, Marsilio, 2019, p. 179); cfr. la recensione di Lucio Russo sul blog Anticitera: https://anticitera.org/2019/09/01/recensione-a-laula-vuota-di-ernesto-galli-della-loggia/.
  6. Lo ha dimostrato in molti studi Lucio Russo (vd. ancora, in generale, il già citato Perché la cultura classica).
  7. Aggiungo che Odifreddi legge Dante con gli strumenti sbagliati. Cita saggi belli e interessanti come quelli di Borges; saggi che però hanno il difetto di non essere stati scritti per spiegare quando, dove e come sia stata composta la Commedia, ma per fornire un’immagine complessiva di Dante a un pubblico il più vasto possibile o per riscrivere Dante. Sono saggi importanti, che gli specialisti conoscono bene, ma sono a tutti gli effetti “letteratura” e non lavori storici e filologici basati su prove documentarie e argomentazioni razionali. È come se io mi mettessi a studiare le galassie lontane senza utilizzare i dati di Hubble ma pretendendo di vederle con un cannocchiale per astronomi dilettanti di un secolo fa. È questa la mente scientifica di Piergiorgio Odifreddi?).