1. La filologia romanza gode di buona salute. A parte le numerose ricerche individuali, chi sfoglia i programmi dei grandi convegni delle società internazionali ha l’impressione di discipline per le quali, tra i progetti di gruppo già realizzati e quelli in cantiere, non mancano né le energie né i finanziamenti. E i filologi romanzi sono di solito d’accordo su un punto: la risposta alla domanda “perché fare filologia romanza nel XXI secolo” è: “perché sì”.

Perché è parte integrante del nostro patrimonio culturale, perché la prospettiva comparatistica è indispensabile nella società moderna e altre – giustissime – motivazioni. Motivazioni sulle quali, prevedibilmente, il consenso tra gli studiosi è già unanime. D’altronde, non è per nulla difficile spiegare alle generazioni dell’Erasmus quanto sia importante studiare il legame tra le lingue romanze. Basta mostrare come uno spagnolo, un francese e un italiano di media cultura possono tranquillamente e quasi naturalmente parlare ognuno nella propria lingua e, magari aiutandosi con i gesti e un po’ di inglese, capirsi.

2. Insomma, il problema non sta nella ricerca; di lavoro duro per i filologi ce n’è per altri cento anni. In questione è piuttosto la trasmissione del sapere: come e perché tramandare le conoscenze elaborate negli ultimi centocinquanta anni o giù di lì? Insomma, la domanda vera è: “perché – e come – insegnare filologia romanza?”. Posta in questo modo, la questione è più interessante, perché la risposta non può essere autoreferenziale. Molti studiosi di lingue romanze hanno più volte spiegato come e perché vada insegnata oggi la disciplina; dopo il processo di Bologna, dopo la riforma dei cicli universitari, da vari anni si avverte l’esigenza di adeguare i metodi didattici alle richieste della modernità e sono ormai numerose le iniziative delle varie Società (degli Italianisti, dei Filologi romanzi) dedicate espressamente alla didattica scolastica e universitaria. Ma se non si può più assegnare il manuale di Lausberg agli studenti dei primi anni dei corsi di laurea in Lettere, come si spiegheranno – oggi – i fondamenti della disciplina?

A questo proposito, mi avevano colpito molto le parole di Marcello Aprile in una recensione di qualche anno fa (su «Lingua e stile», XLIII 2008, pp. 154-161) al volume di Martin Glessgen, Linguistique romane. Domaines et méthodes en linguistique romane et française (Paris, Armand Colin, 2007):

che tipo di utilizzazione può avere un manuale così imponente da parte di due tipi di pubblico così diversi, come quello degli studiosi – che potranno senza dubbio giovare sia in termini di lettura generale, sia come consultazione su temi particolari – e quello degli studenti negli atenei d’Europa così come sono stati riformati dal processo di Bologna? Le nostre discipline da un lato riscuotono riconoscimenti della loro importanza […], ma dall’altro i programmi, sempre più ristretti, imposti dalle dinamiche della laurea triennale […] fanno sì che le informazioni per i nostri studenti siano sempre più superficiali e striminzite.

E mi avevano colpito perché temo che tra pochi anni non esisteranno più due tipi di pubblico.

3. Si possono formulare varie modeste proposte per affrontare i tempi che cambiano. Per esempio, poiché gli studenti europei arrivano generalmente all’università senza sapere il latino, la cui conoscenza è stata fino a tempi recenti reputata indispensabile per l’insegnamento della filologia romanza, è possibile immaginare che in futuro il compito dei docenti possa di elaborare metodi per mostrare i legami tra le lingue romanze a partire dalla foce (dalla situazione attuale) e non dalla sorgente (dal latino). Se si deve insegnare linguistica romanza e se gli studenti non conoscono il latino, bisognerà trovare dei metodi per trasmettere il sapere senza il latino.

E se gli studenti ignorano il latino ignorano altrettanto spesso la storia antica, medievale e della prima età moderna: nei nuovi programmi scolastici, in Italia come in Europa, lo schiacciamento della storia verso la contemporaneità sembra inarrestabile. In queste condizioni, la soluzione appena avanzata sembrerebbe l’unica sostenibile. Partendo dalla fine, dallo stato di fatto, dall’attuale situazione sociale, politica e geografica delle lingue romanze, si evita sia il problema della storia sia quello del latino. 

4. Inoltre, poiché gli studenti arrivano all’università senza già sapere il latino e la storia, capita che i docenti universitari non lo considerino un loro problema. E infatti, considerato il livello generalmente più basso delle conoscenze degli studenti dei primi anni, si è cominciato a pensare al primo ciclo universitario di tre anni come a un limbo tra le scuole superiori e l’università; insomma, una non-università prima dell’università, nella quale, sostanzialmente, gli studenti possano recuperare le lacune delle superiori.

Gli studiosi più maturi, cresciuti e formatisi per la maggior parte in un sistema educativo totalmente diverso da quello attuale, hanno meditato a lungo sulla possibilità e sulle forme dell’insegnamento della filologia romanza. Tuttavia, mi pare che il problema dell’istruzione di base sia stato spesso eluso. Si immagini uno studente europeo che giunga al primo ciclo di un corso di laurea in Lettere (o Scienze umanistiche, Sciences du langage, Langues et littérature romanes, Filologia romànica, Ciências da Linguagem, Linguistics, Modern and Medieval Languages, Vergleichende Romanische Sprachwissenschaft), dopo un corso di studi nel quale non abbia studiato per nulla il latino (né il greco) e abbia appreso solo generiche nozioni di storia romana e medievale (per non parlare del livello di conoscenza della lingua e della letteratura nazionale e delle altre materie del curriculum); necessariamente, nel corso dei primi tre anni, l’ipotetico studente dovrà ritrovare il tempo perduto per essere in grado di affrontare il secondo livello. Se in tre anni sarà stato capace di colmare le lacune, potrà iscriversi al secondo grado, cioè la laurea magistrale (in Italia) o master (nelle università del resto d’Europa). E qui, finalmente, potrà specializzarsi.

Ora, io credo che né lo studente ipotetico che abbia appreso la linguistica romanza a partire dalla foce né lo studente reale che non abbia studiato per bene il latino possa essere capace di ricostruire – o anche semplicemente immaginare – il processo di elaborazione che ha condotto, nel corso di quasi due secoli, alla formalizzazione dei rapporti tra le lingue romanze. Per quanto abile nella propria ristretta specializzazione, quello studente potrà ripercorrere a ritroso i passi dei propri maestri diretti o indiretti? Potrà poi superarli? Non si ritroverebbe in una condizione simile a quella quotidianamente esperita dalla quasi totalità degli utenti moderni di un computer, la condizione di chi utilizza degli strumenti senza essere capace di costruirli o di comprenderne in linea di massima il funzionamento? Quando si saranno esaurite le ultime generazioni formate e cresciute in un’università, ma soprattutto in una scuola, totalmente differenti dalla attuali, chi farà filologia romanza? Chi costruirà nuovi metodi e modelli?

5. Il problema, insomma, non è nell’università e non è nella riforma dei cicli; e la salvezza non verrà certo dalle nuove – ma nuove già da diversi decenni – tecnologie, che non possono aiutare chi non conosca la storia, il latino e la letteratura (nazionale e non). La risposta alla domanda: “chi – e se – farà filologia romanza” (o “chi farà matematica”, “chi farà biologia”, “chi farà diritto”) è in primo luogo nella scuola.

Gli studiosi europei (francesi, tedeschi, spagnoli) hanno perlopiù dinanzi a sé una situazione irrimediabilmente compromessa, in particolare per lo studio del latino e in generale della cultura classica. È quindi certamente più semplice (forse del tutto ragionevole e necessario) riconoscere lo stato di fatto e, a partire da esso, elaborare una soluzione praticamente realizzabile. In Italia, il panorama è ancora diverso – per poco, probabilmente. Qui, infatti, dove sono appena più forti le sacche di resistenza di una scuola (e in particolare di un liceo) di livello generalmente più alto rispetto al resto d’Europa, c’è forse ancora spazio – al netto delle direttive europee – per una battaglia a favore di un sistema educativo diverso. Una battaglia che dovrebbe essere condotta in prima persona da coloro che hanno il compito di trasmettere il sapere. 

Che i maestri siano uno o mille, che i professori siano reclutati tramite le scuole di specializzazione, i percorsi formativi o tramite concorso, è un problema di gestione delle risorse che riguarda solo indirettamente la sostanza dell’insegnamento. Molti o pochi, mi spingerei a dire, purché conoscano – e possano insegnare – il latino, la storia, la letteratura.

Tuttavia, la forma rischia spesso di prendere il sopravvento sulla sostanza. Chi ha frequentato le scuole di specializzazione o i tirocini per l’insegnamento, sa che, tra didattica, pedagogia e aree comuni, il livello delle conoscenze di uno studente rischia di ridursi drasticamente. Purtroppo l’interesse per la forma, per il come (oggetto della didattica) e non per il cosa (oggetto della cultura) è spesso preponderante nei corsi e nei manuali di didattica: andate e insegnate – sempre essere il motto – qualsiasi cosa purché lo facciate (bene o male che sia). In queste condizioni, il problema della scuola italiana non sarà quello di dar da mangiare a cento o a centomila famiglie (che è un problema dello Stato): il problema – per il quale dovrebbero scendere in piazza dottorandi e ricercatori – sarà la qualità e la sostanza dell’insegnamento.

6. Già nel 2006 Giorgio Inglese notava come le esigenze didattiche dell’università moderna, accanto allo «sfacelo della cultura umanistica», facciano sì che la lettura del poema dantesco, per molti studenti, costituisca «la prima e (certo) l’ultima occasione di contatto con la storia sacra, la mitologia, la storia medievale, e persino la mitologia meno ovvia» 1. Ma la chiave del problema non è nell’università, è nella scuola. Se gli studenti universitari considerano la lingua di Dante un oggetto inconcepibilmente lontano, come si potrà pensare di assegnare loro la lettura integrale del poema? Se conoscono solo sommariamente il latino, non basteranno poche dispense sulla fonetica e la morfologia delle lingue romanze e qualche fotocopia sui testi volgari delle origini. Le nozioni in tal modo apprese si dissolveranno in fretta e solo i più fortunati (quelli che avranno avuto al di fuori dell’università – in famiglia, in particolare – gli stimoli adeguati) potranno specializzarsi e studiare le proposizioni del latino tardo o la diffusione dell’allegoria nella poesia occitana.

7. I problemi della filologia romanza sono i problemi di tutte le discipline umanistiche. E l’umanesimo in quanto tale non è una componente costante, eterna ed essenziale della società. L’umanesimo – e con esso la filologia – può morire. E la filologia non ha – in sé e per sé  – nulla che possa salvarla dal naufragio. Se qualcosa può essere difeso, sarà l’umanesimo in quanto tale e non una singola disciplina. Se nulla può salvarsi, «in assenza di un pubblico di lettori e di qualsiasi altra ricaduta indiretta sulla cultura condivisa», ci saranno sempre più persone che si chiederanno «come mai si continuano a finanziare ricerche, ad esempio, sulla poesia occitanica o sulla lirica greca arcaica?» 2. E non ci sarà nessuna risposta efficace.

Per la filologia romanza la soluzione non potrà venire né dalla richiesta di nuovi finanziamenti, né da un sistema di valutazione delle pubblicazioni accademiche che non penalizzi i filologi e i linguisti, né dall’elaborazione di nuovi strumenti didattici per l’insegnamento delle discipline storiche e filologiche né, tanto meno, da tecnologie vecchie o nuove. La soluzione dovrà giungere dalla scuola. Se si vuole rispondere alla domanda “perché fare filologia romanza?”, si dovrà in primo luogo lavorare affinché possa esserci “chi farà filologia romanza”.    

[Una prima versione di questo articolo era uscita sul blog di Lorenzo Tomasin ‘Carta, penna e calamouse’: http://calamouse.corrieredelveneto.corriere.it/articoli/chi-fara-linguistica-e-filolog.html.]

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Notes:

  1. G. Inglese, Dante (ieri e) oggi, in «Bollettino di Italianistica», III 2006, pp. 5-14, a p. 10.
  2. Lucio Russo, La cultura componibile. Dalla frammentazione alla disgregazione del sapere, Liguori, Napoli, 2008, p. 16.