Filologia e interpretazione: il caso delle ‘Rime’ di Dante

1. La filologia non è separabile dall’interpretazione. Lo studio della storia della tradizione, la classificazione dei testimoni e la costituzione del testo sono strettamente connessi all’esegesi e l’interpretazione entra in gioco anche quando si affrontano problemi che parrebbero intrinsecamente filologici o editoriali, come la punteggiatura o l’ordinamento dei testi. Ogni edizione è un atto di interpretazione.



Ciò vale particolarmente per un’edizione di importanza capitale per la filologia italiana come quella delle Rime di Dante a cura di Domenico De Robertis (2002), inscindibile dal commento (2005) e dalla parafrasi (2012). Se si vuole discutere dell’edizione delle Rime di Dante non ci si può quindi limitare alla teoria e alla prassi ecdotica: bisogna affrontare problemi interpretativi. Per questo credo che le questioni fondamentali per chi voglia studiare le rime di Dante non siano solo “come sono state pubblicate” o “come sono state ordinate”, ma soprattutto: come si leggevano le Rime nel Novecento? Come le ha lette l’editore critico? Che cosa è stato fatto dopo e cosa si può fare ancora?


2. L’edizione commentata delle Rime a cura di Gianfranco Contini pubblicata nel 1939 è un momento fondamentale per la filologia italiana. Quando Contini, alla fine della Nota al testo, scrive che il suo commento, «essendo una prima prova sistematica d’annotazione scientifica, non ha potuto trarre soverchio profitto dagli esegeti precedenti […] in fondo non sufficienti neanche per la lettera», non vuole dire solo che questa è la sua prima prova (ha appena 26 anni), ma che quella è la prima prova in assoluto di annotazione scientifica alle Rime di Dante e per questo non si giova in nulla dell’esegesi precedente, dichiarando dei debiti solo con la bibliografia propriamente critica nonché, in particolare, con le riviste dantesche italiane e quindi, in fondo, solo con Michele Barbi e la “nuova filologia”. E in effetti, dopo l’edizione del 1939, cambia totalmente il modo di leggere le rime di Dante, anche se alcuni commenti restano nel solco di quella tradizione che Contini avrebbe considerato non scientifica. Tutti i passaggi più significativi del lavoro esegetico novecentesco sulle Rime, e forse non solo sulle Rime, si sono sviluppati nel confronto con Contini. 

Da Contini riparte infatti Domenico De Robertis nel tracciare le linee guida del commento e nel legare due aspetti: il commento come guida all’intelligenza del testo e alla «compresenza ad esso», e il modello editoriale inaugurato proprio da Contini che prevede una introduzione o un cappello al componimento seguito della chiosa in calce o a piè di pagina. Ma l’esigenza della lettura critica del testo non è vincolata a una determinata forma del commento, che si può mutare. La presenza di Contini è più profonda e capillare.


3. Il commento, per De Robertis, è indispensabile, poiché oggi la lingua degli autori (p. XI):

sembra sempre più coinvolta, travolta nella perdita, semplicemente, della lingua come storica identificazione e riconoscimento dello stesso immediato ieri e di una continuità istituzionale, di una memoria non effimera.

Il commento serve a tenere salda la continuità della lingua, della memoria, delle istituzioni letterarie, proprio perché è in atto una perdita di questa stessa memoria; è una forma di conservazione, di recupero, di salvataggio della lingua e della memoria. Ed è un dialogo: con i commenti precedenti e con chi legge. E infatti De Robertis affronta il problema del rapporto con gli altri commentatori ritenendo che debba esserci continuità e intesa, da un lato con chi ha letto e interpretato «e non sembra trovare più interlocutori», e dall’altro con il pubblico, che deve essere composto anche dai «non addetti ai lavori» (p. XI). Ragion per cui utilizza episodicamente un registro più basso e meno sorvegliato e dei riscontri con l’attualità che dovrebbero consentire un ampliamento del pubblico potenziale.

Il passo che più significativo è nel commento al primo sonetto di Dante a Forese Donati, Chi udisse tossir la mal fatata (87; LXXIII). De Robertis, arrivato al verso 11 («ma per difetto ch’ella sente al nido»), riferito alla moglie di Forese che, oltre a essere afflitta dal mal di gola, dal freddo e dalla tosse e ad avere umori «vecchi», soffre di un «difetto» «al nido» (l’allusione è all’impotenza o a un disinteresse di Forese) commenta (p. 461):

perché non c’è o è inattivo chi frequenti il suo «nido»: non il petto, come suggeriscono Barbi e un po’ tutti […], ma il ‘sesso’ femminile inteso come rifugio accogliente, anche tenuto conto della complementare denominazione metaforica del tradizionale frequentatore.

Nel commento c’è quindi anche un po’ di “attualizzazione”, grazie a qualche riferimento pop e a qualche lieve alleggerimento del registro. È una via che è stata poi praticata soprattutto da Claudio Giunta, anche in ragione della destinazione editoriale, che al posto di Alberto Sordi cita – per esempio – Bob Dylan e Ornella Vanoni.


4. De Robertis dà indicazioni chiare sul modo in cui ha annotato i testi, cogliendo un aspetto problematico dell’utilizzo delle banche dati e rifiutando sia la disinvolta annotazione di luoghi sensibili sia l’esibizione di schermate di dati. Predilige la «pertinenza dell’indizio» che vince sulla pioggia dei tratti paralleli e sul ventaglio delle opinioni (p. XXXIII); ed è interessato alla presenza di Dante nei poeti vicini e lontani nel tempo, su quanto Dante c’è dopo Dante, ad esempio in Petrarca o in Leopardi, una possibilità che è stata poi sondata in particolare da Giunta e che era già un tratto distintivo del commento di Contini. 

Ora, se è certamente condivisibile l’idea che l’indizio debba essere sempre pertinente, che non sia utile affastellare dati senza raziocinio, che la pertinenza debba vincere sui troppi tratti paralleli e sull’elencazione dei giudizi degli altri commentatori, siamo però sicuri che, se si vuole parlare a molti e non solo agli addetti ai lavori, la stringatezza del commento di De Robertis, di per sé una scelta “continiana”, sia la sola possibile? In altre parole, c’è una terza via tra la pioggia dei tratti paralleli e la pertinenza dell’indizio? Direi di sì: è lo studio della tradizione che sta a monte della poesia dantesca e che per essere illustrata in un commento rivolto a un pubblico ampio richiede spesso molto impegno e molto spazio; e l’elenco delle opinioni è indispensabile in tutti i casi in cui non c’è una soluzione unica.


5. Chi commenta le rime di Dante non può non porsi il problema dell’intertestualità. È un punto estremamente critico, perché nel momento stesso in cui si cerca di stabilire un rapporto intertestuale tra un singolo passo dantesco e una qualsiasi altra opera, si rischia di dimenticare quello che lo stesso De Robertis enuncia con grande chiarezza, e cioè che in Dante ci sarebbe (ibidem):

la continuità della presenza […] dell’intero mondo della poesia, antica come recente, dai classici e dalla Scrittura ai suoi prossimi, insomma della cultura poetica diretta come indiretta, e dunque non solo poetica, della sua età, che vuol dire una sorta di ascrizione a sé come fino a lui non s’era vista e forse nemmeno immaginata.

È un passo importantissimo, perché si anticipano qui i termini di quello che è stato detto e fatto dopo di lui, specie da Giunta, ma anche da buona parte di coloro che proprio ripartendo dal cantiere dell’edizione e dal commento hanno letto criticamente le rime di Dante. Con la differenza che tutto quello che in De Robertis è in qualche misura implicito – il rapporto con la tradizione, dai classici alla Scrittura ai poeti più prossimi – è stato esplicitato, chiarificato, reso intellegibile anche a un pubblico più ampio.

Tuttavia, secondo De Robertis, in Dante la tradizione diventa “lingua”. E questo sarebbe «solo suo, specificamente suo, questo è che fa che ciò che è stato detto sia un’altra volta e di nuovo dicibile» (p. XXII). Da un lato, quindi, la presenza; dall’altro la distanza, il distacco dal resto del mondo della poesia (ibidem):

Il discorso di Dante si muove e svolge in un ‘continuum’ che più che sostenere ed esaltare lui, è attraverso di lui che si esalta e s’accende (e ci accende), e del quale siamo in debito, tutta la poesia in lingua di , e non solo la poesia, è in debito verso di lui.

È vero, in parte: se il Duecento minore ci interessa ancora, se possiamo accenderci per quella parte della letteratura, lo possiamo fare attraverso Dante perché attraverso di lui tutta la poesia italiana acquista valore. Ma Dante non può essere solo un veicolo: deve essere un punto di arrivo che raggiungiamo più compiutamente se conosciamo quello che c’era prima.


6. Contini aveva definito le poesie di Dante una “superba collezione di estravaganti”, delle “rime sciolte”. Nell’edizione critica questa idea viene sancita dall’abbandono di un ordinamento cronologico come quello di Barbi, che cercava di ricostruire la biografia poetica e che era stato conservato da Contini e poi da Giunta con poche modifiche, a partire dall’esclusione dei testi della Vita nova e del Convivio. È questo probabilmente l’elemento più caratteristico del commento e dell’edizione di De Robertis, che si pone quindi in continuità con Contini. Dopo gli studi di De Robertis, le Rime sono ormai “estravaganti” in due sensi: sul piano della coerenza testuale, perché le dinamiche della circolazione e la fisionomia della tradizione sono pluricentriche e difficilmente razionalizzabili, e sul piano dell’organicità della storia, perché a parte la Vita nova e il Convivio non ci sono prove sicure della volontà dantesca di dare un senso unico alla totalità delle rime. Anche questo è un aspetto in cui il lavoro filologico comprende in sé interpretazione ed ecdotica, perché l’assenza di coerenza testuale e la disorganicità della storia che si legge in filigrana nei testi si rispecchiano in una tradizione manoscritta multiforme, senza centro, dispersa. Le uniche opere che dimostrano con sicurezza la volontà di Dante di “unificare” le proprie poesie – sia sul piano della storia sia su quello testuale – sono la Vita nova e il Convivio


7. All’idea della collezione di estravaganti si lega quella – ancora risalente a Contini – che Dante procedesse per “saggi”, con la scoperta di nuovi centri tematici, e che si possa quindi parlare di uno sperimentalismo del Dante lirico. Si può citare tra tutti il caso delle petrose, che più di altri testi danteschi sono riconducibili all’idea di sperimentalità. Ora, a partire dall’edizione critica, con l’individuazione dei processi redazionali dei testi della Vita nova e in particolare con la dimostrazione dell’ipotesi dell’esistenza di una prima redazione d’autore per alcuni sonetti del libro, si è potuta ottenere una verifica concreta di questo procedere “per saggi”.

Ed è notevole anche l’idea dell’«impurità della raccolta», «mischiata di più cose», che comprende generi e stili diversi, per successivi addensamenti, dilatazioni, svolte e sequenze conformi come quella della donna Petra o della pargoletta. Notevole in rapporto a quello che ho chiamato il “paradigma medievale” della lirica, vale a dire l’idea che lirica, nel Medioevo, significhi ‘poesia caratterizzata dalla varietà formale e contenutistica’ e che a partire da qui si sviluppi la concezione moderna della lirica come ‘poesia dell’interiorità, della soggettività’. La lirica, in quanto varia, è il genere più adatto a esprimere la molteplicità delle emozioni umane; e le rime di Dante, assieme ai Rerum vulgarium fragmenta, sono l’esempio più significativo della tendenza alla varietà della poesia volgare.


8. Un problema cruciale per il filologo – in tutti i casi in cui non è possibile identificare una chiara e univoca volontà dell’autore – è quello dell’ordinamento dei testi: secondo De Robertis, poiché non è possibile ricostruire con esattezza la storia poetica di Dante, sarà meglio attenersi ai dati della tradizione. A partire dalla serie di quindici canzoni «che costituisce il dato più vistoso e meno scalfibile» dei manoscritti e delle stampe fino a Barbi (p. XVI), De Robertis sceglie di ordinare i testi poetici danteschi sul modello dei canzonieri dell’epoca e di offrire ai lettori moderni quel tipo di successione (canzoni, ballate, sonetti) con il quale Dante, «senza probabilmente averci la testa, ovvero l’intenzione, poteva immaginarsi di potere essere letto e “ricolto”» (p. XIX). Certo, a volte De Robertis sembra alludere a un’intenzione autoriale, come quando parla di accostamenti significativi di canzoni e ballate che si richiamano tra loro «non come esiti di posteriori intelligenti sistemazioni, ma come il reperto di un’unica sedimentazione», forse perché ritiene che faccia parte della riflessione dantesca anche una «volontà ordinatrice» (p. XIX). Resta però innegabile il dato fondamentale: le Rime rivelano una radicale estravaganza, non una serialità. E infatti De Robertis chiarisce subito, in nota al primo componimento dell’edizione commentata (la canzone Così nel mio parlar), che è «impensabile, men che mai documentabile, una proposta di sistemazione delle proprie rime da parte di Dante» (p. 3, nota 3).


9. Leggiamo ora la Nota al testo di Giunta (p. 61):

In generale, ho cercato di tenermi il più lontano possibile da ogni interpretazione complessiva di queste che sono, alla lettera, Rime sparse. Ognuna fa caso a sé, e per questo di ognuna cerco di descrivere la posizione non all’interno del libro delle Rime, che non esiste, o della carriera poetica di Dante, la cui cronologia è così aleatoria, ma all’interno della tradizione letteraria, richiamando l’attenzione su quei testi o quei generi che mi sembrano volta a volta, localmente, pertinenti per un confronto.

In sintesi: non ci interessa tanto la carriera poetica (la storia), quanto la tradizione letteraria. Anche per Giunta lo sforzo più urgente è rintracciare attraverso il commento quella «continuità della presenza […] dell’intero mondo della poesia». 

La scelta di De Robertis di costruire un ordinamento slegato dalla “storia poetica di Dante”, che non voglia quindi dare sostanza, attraverso la successione dei componimenti all’interno dell’edizione, alle ipotesi sulla cronologia relativa dei testi e sulla storia poetica di Dante, è una scelta interpretativa, un atto di interpretazione forte che traduce sul piano pratico l’idea che le Rime non siano, come la Vita nova o il Convivio, un aggregato uniforme, ma una “collezione di estravaganti”. Quello che ci interessa oggi non è infatti solo la carriera poetica, ma ad esempio il rapporto con la tradizione letteraria. E sia De Robertis sia Giunta rifiutano le interpretazioni complessive e rinunciano a ricostruire la carriera poetica o la “storia della poesia di Dante” perché sanno di avere a che fare con testi sparsi, con rime estravaganti. Questo punto è ormai saldo nella tradizione dei commenti al Dante lirico ed è forse difficile tornare indietro. Anche il mio commento, apparso in una collana che sceglie programmaticamente l’ordinamento cronologico di Barbi, nei fatti rifiuta la possibilità di individuare in quell’ordinamento una storia – fosse anche la storia di un canzoniere.

Inoltre, De Robertis e Giunta concordano nel ritenere che la biografia poetica non sia un dato e che questa biografia non sia l’aspetto più importante. Lo dicono però in modo diverso. Per De Robertis c’è stata una pretesa di innalzare una «bella ricostruzione della biografia dantesca sulla base delle rime stesse» (p. XVI); pretesa in parte legittima, perché le rime di Dante raccontano spesso esplicitamente la storia di un “io”, ma che non risulta sempre efficace. E poi, criticando l’idea dell’ordinamento cronologico (p. XVI):

come se la via fosse senza incroci e senza svolte, come se non fosse Dante il primo a correggere la rotta, e a descrivere gli incidenti di percorso, e non gli accadesse di gestire simultaneamente più percorsi.

È anche questa un’idea bella e utile, che ci restituisce l’immagine di un percorso creativo non lineare. E, più in generale, le Rime di Dante lette da De Robertis sono caratterizzate dalla “libertà di movimento”, dalla varietà tematica («coi segnali espliciti del cambiamento», p. XIX), e dalla scoperta della novità formale e tematica. Senza dimenticare che per De Robertis l’«‘estravaganza’ costituzionale è anche di questi continui, forti spostamenti di fuoco; ossia del costituirsi di nuovi nuclei associativi» (p. XXX) e le rime minori sono il “regno dell’occasionalità” (p. XX).

Queste riflessioni mi sembrano particolarmente utili perché ci impongono di non trattare «come cosa salda» nessun ordinamento dei testi. L’ordinamento non è un dato: è strumentale alla lettura ed è un atto di interpretazione che rientra a pieno titolo nel lavoro filologico. Non c’è nessun motivo per considerare più vero o più “filologicamente corretto” un ordinamento antico, per quanto ben attestato nella tradizione, rispetto all’ordinamento ricostruito dagli editori. 

È d’altronde possibile verificare l’idea della sperimentalità, dell’avanzare per saggi, per gruppi tematici, per nuclei esplorativi e di ulteriore scoperta: nel Dante lirico ci sono spesso ritorni all’indietro (come nel caso della canzone montanina) e la storia poetica, se proprio la vogliamo andare a cercare, ci scappa di mano, la vediamo di sfuggita solo nei nuclei che Dante stesso ha organizzato (la Vita nova e in parte il Convivio); per il resto si ha più l’impressione di una concentrazione per nuclei, che Dante può decidere di volta in volta di abbandonare o di ampliare, come nel caso delle petrose, che non necessariamente saranno state composte tutte allo stesso tempo. Ciò non vuol dire che non si debbano intrecciare, quando utile e quando possibile, poesia e biografia, poiché è Dante stesso a spingerci a farlo legando indissolubilmente, nella Vita nova, nelle Rime e nella Commedia, l’io poetico e l’io storico.


10. Dante lirico si commenta in un modo, un poeta minore del Duecento in un altro. Non avrebbe senso farlo nella stessa maniera. Ma è anche vero che si parte da una petizione di principio, poiché già sappiamo che la cultura poetica di Dante è straordinaria e quella di Tomaso da Faenza, per esempio, non lo è. Ma un commento, forse, non deve prefiggersi solo questo scopo: deve avere come obiettivo di collocare i testi nella tradizione, che può essere considerata una forza che agisce in parte inconsciamente rispetto alla cultura dei singoli autori. Un buon commento deve provare a svolgere questa opera di posizionamento, perché non tutti i lettori hanno la stessa percezione della complessità della tradizione: il mondo della poesia va ricostruito e illustrato al lettore per assicurare la continuità della memoria della lingua e della cultura.


Bibliografia

Dante Alighieri, Rime, a cura di G. Contini, Torino, Einaudi, 1939, 19462

Dante Alighieri, Rime della ‘Vita nuova’ e della giovinezza, a cura di M. Barbi e F. Maggini, Firenze, Le Monnier, 1955

Dante Alighieri, Rime della maturità e dell’esilio, a cura di M. Barbi e V. Pernicone, Firenze, Le Monnier, 1969

Dante Alighieri, Rime, a cura di D. De Robertis, «Ediz. Naz. delle Opere di Dante», a cura della Soc. Dantesca Italiana, Firenze, Le Lettere, 2002, 3 voll. in 5 tomi 

Dante Alighieri, Rime, Ediz. commentata a cura di D. De Robertis, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2005

Dante Alighieri, Rime, a cura di C. Giunta, in Dante Alighieri, Opere, Ediz. diretta da M. Santagata, Vol. I, Milano, Mondadori, 2011 (seconda ed. rivista: Dante Alighieri, Rime, edizione commentata a cura di C. Giunta, Milano, Mondadori, 2014)

Dante Alighieri, Vita nuova, Rime, to. I. Vita nuovaLe Rime della ‘Vita nuova’ e altre Rime del tempo della ‘Vita nuova’, A cura di D. Pirovano e M. Grimaldi; to. II. Rime della maturità e dell’esilio, A cura di M.G., Roma, Salerno Editrice, 2015-2019

D. De Robertis, Dante, le Rime in breve, Colle Val d’Elsa, Tipografia Vanzi, 2012


[Questo articolo è una sintesi di un saggio appena pubblicato: M. Grimaldi, Leggere le rime di Dante oggi, in «L’Alighieri», n. 56 2020, fasc. 2, pp. 91-102]