Dante ieri e oggi

1. Quando Dante diventa Dante

Quand’è che Dante diventa Dante? Oggi, all’epoca delle letture pubbliche, dei podcast, dei videogiochi e dei fumetti ispirati alla Commedia e delle iniziative organizzate, in varie parti del mondo, tra il 750° anniversario della nascita nel 2015 e il 700° della morte nel 2021, siamo abituati a pensare a Dante, in tutto il mondo, come al “sommo poeta”, al “padre della lingua italiana”.



E in effetti la fortuna di Dante – una “fortuna” che è fatta anche di periodi oscuri – è ampia e quasi interrotta: dal momento in cui, mentre è ancora in vita, le sue poesie liriche circolano in varie parti d’Italia e da quando, poco dopo la morte, vengono scritti i primi commenti alla Commedia 1. Fino a oggi, quando Dante, in Italia e in molti altri paesi, si studia comunemente a scuola e all’università. Ma non è una storia lineare. Per questa ragione è interessante provare a ricostruire per grandi linee l’ascesa (dal Trecento al Seicento) e la caduta (tra Sei e Settecento) e alla fine riflettere sulle interpretazioni di ieri e di oggi, sull’attualità e l’inattualità di Dante. 2


2. Dante nel Trecento

La Commedia, la Vita nova e le Rime hanno avuto una diffusione vastissima. La Commedia, in particolare, diventa rapidamente un classico anche perché è accompagnata fin da subito da commenti e apparati didattici, come avveniva solo con le grandi opere dell’antichità studiate nelle scuole e nelle università medievali. Nessun altro capolavoro della letteratura italiana ha una tradizione di commenti così ampia, precoce e duratura. Il poema, già nel Trecento, è imitato ripetutamente e arriva molto presto fuori d’Italia, in Francia, in Spagna, in Inghilterra. Ed è letto da tutti: nobili, intellettuali, mercanti, religiosi.

Più in generale, si può affermare che la tradizione della Commedia è del tutto peculiare nel quadro della letteratura italiana dei primi secoli, specie in ragione della sua ampiezza. I censimenti più completi contano approssimativamente ottocento testimoni, tra i quali circa seicento contengono almeno una cantica. È poi particolarmente rilevante la tradizione indiretta, soprattutto quella attestata dagli antichi commenti; ma sono considerevoli anche le citazioni in varie tipologie di opere: il poema viene infatti menzionato nei trattati di poetica e nelle prediche. Tra gli “estratti” di maggior successo – i frammenti trascritti isolatamente – ci sono infatti il Padre nostro che apre il canto XI del Purgatorio e soprattutto la preghiera alla Vergine dell’ultimo del Paradiso, pronunciata da san Bernardo, che inizia con «Vergine Madre, figlia del tuo figlio» (XXXIII 1) e si conclude con l’obiettivo puntato su Beatrice: «vedi Beatrice con quanti beati / per li miei preghi ti chiudon le mani!» (38-39). 

Secondo Umberto Eco noi moderni ameremmo in particolare l’Inferno perché viviamo in un mondo che ha conservato solo i codici infernali; e per questo capiremmo bene le emozioni dell’Inferno e apprezzeremmo di più la prima cantica. E avremmo al contrario perduto i codici del Paradiso, non saremmo più in grado di provare emozioni paradisiache. Eco ha forse ragione: Dante, nel mondo di ieri, poteva essere apprezzato soprattutto da chi possedeva tutti i codici, i codici del peccato e i codici della salvezza 3.


3. Poeta, teologo, filosofo

Dante non è sempre stato Dante, non è sempre stato “il padre della lingua italiana”, non è sempre stato il poeta dell’assoluto al quale siamo abituati a pensare oggi. Dante, almeno fino al Cinquecento, è ritratto non solo come poeta, ma anche come teologo e filosofo. Questa caratterizzazione ha una lunga storia. Negli epitaffi e nei testi celebrativi composti soprattutto nel corso del Trecento e fino ai primi del XV secolo, Dante, oltre che «gloria delle Muse, autore carissimo al volgo», è da subito chiamato “teologo”, «non ignaro di nessuna dottrina che la filosofia custodisce nel suo nobile seno» (Giovanni del Virgilio); non è solo l’autore del poema celeste e infernale, è il cantore dei «diritti della monarchia» (Bernardo Scannabecchi); colui al quale la virtù ha conferito «l’illustre titolo di teologo e di vate» (Giovanni Boccaccio); che, «ispirato dall’alto del cielo, apprese ciò che le costellazioni operano sull’infima terra, i segreti del firmamento, i decreti degli astri» (Benvenuto da Imola); quel vate «che conosceva la terra e ha descritto gli astri del cielo luminoso e gli inferi laghi e il terzo regno» (Cristoforo Landino); che nelle sue opere ha cantato e messo in versi in toscano «tutto ciò che Aristotele e la Sacra Pagina affermano» (Ugolino Verino). Dante, per i lettori antichi, è dunque vate, filosofo e teologo, cantore delle cose celesti e divine, conoscitore dei segreti degli astri e dei regni ultraterreni, colui che «mise insieme non solo l’arte poetica e quanto propriamente pertiene ai poeti, ma anche i temi morali, naturali, divini con enorme ammirazione da parte dei lettori» (Giannozzo Manetti). Poeta dell’eterno, ma anche poeta del mondo 4.


4. Notizia e conoscenza

C’è un episodio che esemplifica perfettamente il modo in cui Dante viene letto nel Rinascimento. L’anniversario dantesco del 2021 cade immediatamente dopo quello di Raffaello, morto nel 1520. Ma tra Dante e Raffaello ci sono molti altri punti di contatto più importanti. Il più celebre è senza dubbio il ritratto di Dante che si può vedere nella Stanza della Segnatura affrescata da Raffaello ai Musei Vaticani, in Città del Vaticano. Quello di Raffaello è un doppio ritratto, in realtà. Il progetto iconografico della Stanza della Segnatura è complesso: gli affreschi delle quattro pareti vogliono infatti rappresentare la manifestazione terrena della Filosofia, della Teologia, della Poesia e della Giustizia. I putti ai lati della personificazione della Filosofia che sovrasta l’affresco noto come la Scuola di Atene reggono un cartiglio dove si legge Causarum cognitio, vale a dire ‘la conoscenza delle cause’ che è propria del sapere filosofico. Di fronte alla Scuola c’è la cosiddetta Disputa del Sacramento. Qui il cartiglio che accompagna l’allegoria della Teologia proclama invece: Divinarum rerum notizia 5.

Come spiega Antonio Paolucci in una importante monografia su Raffaello: «I saperi sono cognitio perché praticabili dalle umane facoltà, i supremi veri della Religione sono notitia. Dio li comunica, in un certo senso li notifica» 6. Ed è qui che tra i teologi e i dottori della Chiesa disposti attorno all’ostensorio compare il primo ritratto di Dante. L’altro è nell’affresco noto come Parnaso, dove il poeta è raffigurato accanto a Omero e a Virgilio. E in questo caso la figura allegorica recita Numine afflatur: la poesia è ‘ispirata dal dio’. Dante, che nei secoli precedenti era stato spesso descritto anche come filosofo, per Raffaello è prima di tutto teologo e poeta divino.


5. Ascesa e caduta

La fama di Dante diminuisce tra Seicento e Settecento, si dice spesso. È vero, quantitativamente: ci sono meno edizioni, meno studi, meno lettori. E la letteratura italiana si popola di nuovi autori che diventano classici: Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso 7.

Ma non bisogna dimenticare che, per ragioni socio-economiche e culturali, il Seicento in Italia fu in generale un’epoca di decadenza qualitativa e di frammentazione del mercato librario italiano rispetto alla fioritura dei grandi tipografi cinquecenteschi. Ed è però il secolo in cui Dante si afferma con più decisione fuori d’Italia (ma era già arrivato in Francia, in Spagna, in Inghilterra, dove c’erano stati a partire dal Trecento lettori, imitatori, studiosi). E il Seicento è il secolo del primo Vocabolario della Crusca, che sancì l’autorità delle Tre Corone (Dante, Petrarca e Boccaccio) e in particolare della Commedia. Da quel momento, conoscere bene la lingua italiana significa conoscere Dante. Ed è datata 1595 – quindi già quasi nel Seicento “senza Dante” – l’edizione “reputatissima” degli Accademici della Crusca, la prima di carattere scientifico, condotta a partire da un elevato numero di manoscritti 8.

Poi, in parallelo con la riscoperta di epoca romantica delle origini medievali e romanze, alla fine del Settecento, e soprattutto ai primi dell’Ottocento, Dante diviene il poeta che conosciamo oggi: simbolo di una nazione in cerca dell’unificazione, di una patria che esiste principalmente nella lingua, nella letteratura 9.

Dante resta legato ancora oggi a questo aspetto politico, nel bene e nel male: c’è stato un Dante risorgimentale, un Dante fascista, un Dante comunista, un Dante cattolico 10. Per la sua natura “impegnata” – è un’opera che vuole esplicitamente cambiare gli uomini e renderli migliori – la Commedia non può sottrarsi alla politica, al gioco delle parti. Ma questo processo di appropriazione, che è del tutto naturale, richiede molta attenzione, perché c’è sempre il rischio di trasformare Dante in un uomo del nostro tempo sottraendolo al tempo che gli è proprio. Vorrei quindi spiegare ora perché Dante è interessante – e utile – soprattutto in quanto inattuale. Lo farò a partire da due episodi celebri dell’Inferno: il canto di Ulisse e il canto di Paolo e Francesca.


6. Conoscenza e rivelazione

Partiamo da Ulisse. Nel canto XXVI dell’Inferno, Dante e Virgilio giungono all’ottava bolgia, tra i consiglieri fraudolenti, dove all’interno di una stessa fiamma stanno Ulisse e Diomede. Quando Dante si rivolge loro, Ulisse, che è il «maggior corno della fiamma», comincia a parlare e racconta la fine della sua storia: la partenza da Circe e la decisione di continuare il viaggio assieme a un piccolo gruppo di compagni (la «compagna / picciola»), invece di tornare a casa da Penelope, per acquisire esperienza del mondo e degli uomini, dei loro vizi e delle virtù. E poi il viaggio in mare aperto verso la Sardegna, la Spagna, Siviglia e il Marocco fino alle colonne d’Ercole, dove Ulisse si rivolge ai compagni per esortarli a superare i limiti (i «riguardi») fissati affinché nessuno andasse oltre («acciò che l’uom più oltre non si metta»). I versi finali del breve discorso sono famosissimi: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» (XXVI 118-120). Ulisse usa parole molto simili a quelle che usa nel Convivio per elogiare la naturale tensione umana verso la conoscenza. Parla della semenza, dell’origine, perché «tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere» (come dichiara appunto, in apertura, il Convivio); e fa leva su un episodio molto noto del mito, la trasformazione in porci di alcuni compagni, perché il sapere è ciò che distingue gli uomini dagli animali e dalle piante. E li esorta quindi a seguire (o a perseguire, come si legge in un’edizione recente) la virtù e la conoscenza (canoscenza è una variante formale caratteristica della lingua poetica del Duecento, che in Dante si alterna a quella dell’italiano moderno) proprio come nel Convivio si afferma che il fine del commento è «inducere li uomini a scienza e a vertù». 

Ma Ulisse, si sa, è un dannato. E la sua colpa è senza dubbio di aver consigliato in modo fraudolento i suoi compagni, persuadendoli a superare le colonne d’Ercole 11. Un atto severamente punito (la nave affonda subito dopo l’avvistamento della terra ferma) che Dante descrive come un «folle volo».

Quindi: l’orazione di Ulisse è o non è ingannevole? E se è ingannevole, che rapporto c’è con il Convivio? Per Dante la conoscenza è o non è il fine principale di ogni uomo? La risposta, nella Commedia, arriva all’inizio del Purgatorio, nel terzo canto, quando Virgilio spiega a Dante che la ragione umana non può comprendere tutto e soprattutto non può intendere le opere insondabili di Dio, per esempio la natura della Trinità. Dante lo ribadisce nella Questio de aqua et terra: «La smettano gli uomini di volere sapere ciò che è al di sopra di loro! E si accontentino di spingersi fin dove possono, sì da raggiungere – per quanto loro possibile – la contemplazione di ciò che è eterno e divino».

Ulisse, come quasi tutti i “doppi” letterari, è quindi un doppio in negativo. Ci sono dei confini che non è dato superare – e il discorso di Ulisse per convincere i compagni è quindi fraudolento e ingannevole. La conoscenza umana ha dei limiti che non è possibile superare. L’uomo deve “osare”, come dirà Kant; ma entro dei limiti che non è l’uomo a stabilire. Per tornare agli affreschi della Stanza della Segnatura, da un lato c’è la conoscenza – la cognitio – e dall’altro la rivelazione – la notitia. E la Commedia è forse il più perfetto tentativo di tradurre in poesia la conoscenza (tutta la scienza che l’uomo può desiderare) e la rivelazione.


7. Perdono e comprensione

Passiamo ora a Paolo e Francesca. In un libretto recente su Dante e le figure femminili c’è un capitolo intitolato Francesca, o del femminicidio 12. Tra i personaggi della Commedia, Paolo e Francesca – e Francesca soprattutto – sono quelli che hanno prodotto il maggior numero di interpretazioni e riletture 13. È la funzione dei classici: non smettere mai di parlare ai lettori di ogni tempo. Non è detto, quindi, benché sia una parola che Dante non conosceva, che non si possa chiamare femminicidio la morte di Francesca, tenendo presente che in italiano il termine indica “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte” (Devoto-Oli). Vediamo.

Dante, come in tante altre occasioni, è reticente. I dettagli della storia di Paolo e Francesca (nomi, cognomi e contesto) emergono solo attraverso gli antichi commenti. Dante ci offre però degli indizi molto chiari sul peccato dei due amanti. Il più importante è subito dopo la fine dell’episodio, nel canto VI, quando parla della «pietà d’i due cognati» (VI 2). E cognato – come si verifica facilmente attraverso il TLIO – in italiano antico significa, come oggi, ‘il fratello della moglie o del marito o il marito della sorella’ o genericamente ‘consanguineo’. Altri indizi sono disseminati nel racconto di Francesca. La protagonista, quando si innamora, ha buoni motivi per nascondersi («soli eravamo e sanza alcun sospetto», 129), muore di morte violenta («la bella persona / che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende», 101-102), l’omicida è condannato alla Caina, dove stanno i traditori e gli assassini dei parenti («Caina attende chi a vita ci spense», 107). Se ne ricava che Paolo e Francesca si sono innamorati, hanno commesso adulterio e per questa ragione sono stati uccisi dal marito di lei e fratello di Paolo, che Dante giudica ancor più severamente immaginando che si trovi in un punto più basso dell’Inferno.Quindi, per Francesca, la parola femminicidio è inappropriata da ogni punto di vista, perché non ci dice nulla del testo (Giovanni Malatesta uccide entrambi gli amanti, non solo Francesca), nulla della cultura e delle idee di Dante (coerentemente più severo con l’assassino dei parenti che con i due «cognati» adulteri) e soprattutto nulla della poesia della Commedia, perché Dante nel poema non cancella mai le proprie convinzioni, spesso completamente diverse dalle nostre. Dante è un poeta-giudice; e il giudice, nella Commedia, può essere di volta in volta Virgilio, quando all’inizio del viaggio il personaggio di Dante è ancora troppo coinvolto nelle cose terrene e prova compassione per i dannati, come nel caso di Paolo e Francesca; o Dante-personaggio, che durante il percorso diventa sempre più consapevole del proprio ruolo, ad esempio quando rivendica la «cortesia» del suo «esser villano» nei confronti di frate Alberigo (Inf., XXXIII 150); o ancora Dante-autore, che giudica severamente l’umanità intera. Dante, come ha scritto Jorge Luis Borges, «comprende e non perdona» 14.


8. La persona e il sacro

Nel canto V dell’Inferno, Dante non vuole narrare né un femminicidio né la storia di una donna violentata o violata come soggetto morale (c’è invece chi descrive Francesca come vittima della famiglia di nascita e poi di quella matrimoniale). E non vuole certo salvare Francesca; se avesse voluto l’avrebbe posta in Paradiso, nel cielo di Venere, accanto a Cunizza da Romano. Dante intende raccontare la tragedia di un’adultera che ha commesso il peccato più comune e meno grave, una peccatrice nella quale tutti possiamo identificarci – uomini e donne, senza distinzione. Ciò che gli interessa non è la donna, non è l’uomo. È la persona. Dante viaggia infatti come “persona” (anima e corpo) nei regni ultraterreni e nell’aldilà ritrova in gloria una donna mortale, Beatrice. Non avrebbe quindi compreso un’affermazione come questa di Simone Weil: «Ciò che è sacro […] è quello che in un essere umano è impersonale. Tutto ciò che nell’uomo è impersonale, è sacro, e nient’altro lo è» 15.

La Commedia, l’opera poetica forse più sacra della letteratura occidentale, è tutto fuorché impersonale. Al centro della Commedia sta la persona, cioè, secondo la definizione di Tommaso d’Aquino – che come Dante riteneva le donne meno razionali degli uomini – la cosa più perfetta che ci sia in natura («Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura», Summa theol., I q. 29, a. 3). Questa immagine della persona, delle donne e degli uomini in quanto persone, coesiste in Dante con un’idea di donna sottomessa e intellettualmente inferiore all’uomo. Le contraddizioni di Dante sono le contraddizioni della cultura occidentale. Chi le cancella, cancellerà la storia. E resterà solo il Dante di oggi. Eppure, quello che dovrebbe interessarci di più è il Dante di ieri, il Dante più lontano, più difficile e inattuale.

[Questo articolo è già apparso sulla Revista Figuras in un numero speciale dedicato a Dante, e si può leggere qui, in italiano e in spagnolo: https://revistafiguras.acatlan.unam.mx/index.php/figuras/article/view/201]