[Ripubblico qui un dialogo con Marco Pacioni apparso sulla rivista «Frontiere della psicoanalisi» (vol. 2 2021, pp. 397-407) con il titolo “Dante: ricapitolazioni autobiografiche e resistenze della storia”.]
I.
Marco Pacioni: Comincerei da un componimento delle Rime di Dante, E’ m’incresce di me sì duramente. La dolorosa vicenda psicologia dell’esperienza amorosa vi è narrata in modo non lineare. La sequenza di ciò che viene detto nelle singole stanze non corrisponde alla progressione del tempo biografico degli eventi. Gli eventi sembrano, più che svilupparsi coerentemente l’uno dall’altro, richiamarsi per ricapitolarsi l’uno nell’altro. Si pensi al giorno della nascita dell’amata collegato dall’autore a un trauma da lui subìto nella prima infanzia. Forse un violento attacco epilettico, un male oscuro di cui il poeta continuerà a soffrire, come si vede dall’improvviso riemergere di questo male nella sua opera, a cominciare dalla Vita nova. Crede che tale procedere per “ricapitolazioni” (e per “capitolazioni” psicologiche nelle quali ricade il poeta), al di là di questo componimento poetico delle Rime, possa essere più in generale osservato anche nelle sue singole opere e nei rapporti di discontinuità e continuità fra esse? E se è così, che senso può avere tale modalità non lineare, cioè caratterizzata dalla compresenza di tempi biografici diversi attraversati da ricorrenti vuoti e da epifanie nell’opera di Dante?
Marco Grimaldi: In E’ m’incresce, come in molti altri componimenti di Dante e dei poeti del suo tempo, gli eventi non sono narrati in modo lineare. Ma questa è la modalità più diffusa nella poesia lirica medievale, dove gli eventi emergono solo di rado e spesso solo in forma di apparizioni o epifanie. È molto raro che si narri una storia, come farà poi Dante nella Vita nova. E’ m’incresce, inoltre, racconta una versione alternativa della storia d’amore con Beatrice. Da questi indizi capiamo che Dante, quando scrive la Vita nova, effettua un’elaborata operazione di montaggio a partire dai materiali poetici accumulati – e in alcuni casi divulgati – negli anni. E, rispetto ai suoi modelli, quando mette assieme i testi poetici sparsi e li organizza nel racconto della Vita nova prova a dare un senso a quelle epifanie, a organizzarle in una storia narrata come se fosse vera. Dante, a partire dal libro giovanile, tende alla linearità anche a costo di creare incongruenze o di abbandonare opere – come il Convivio – che non appaiono più collocabili in un percorso rettilineo, benché accidentato: quel percorso che va dallo smarrimento peccaminoso dopo la morte di Beatrice fino alla visione paradisiaca.
Per quanto riguarda l’epilessia, il male oscuro di Dante, sarei molto cauto. Si potrebbe scrivere una interessantissima storia delle diagnosi dantesche. Il primo a parlare di epilessia fu Lombroso, ma gli studiosi di Dante non gli diedero retta. L’idea è stata rilanciata da Claudio Giunta a proposito di alcuni versi di E’ m’incresce (vv. 57-70) nei quali Dante descrive un evento straordinario: nel giorno in cui nasce la donna amata, lui che è ancora un bambino prova una «passïon nova» (una passione straordinaria, mai provata prima); si spaventa e sviene a causa di una «luce che nel cuor percosse». Colpito, quindi, da una specie di folgorazione, crede quasi di morire. Giunta è cauto e rigoroso: dopo aver constatato che un evento simile non è mai presente nella tradizione poetica prima di Dante, cerca riscontri in altri tipe di fonti e si accorge che analoghe folgorazioni sono descritte in alcuni trattati medici medievali come sintomi dell’epilessia. Pur specificando che la folgorazione potrebbe rimandare a quella di san Paolo sulla via di Damasco (la poesia di Dante è piena di collegamenti con i testi sacri), Giunta ritiene che tale evento corrisponda, nei suoi effetti, a una folgorazione, e più precisamente a un colpo apoplettico o a una crisi di epilessia. Lo spunto è stato poi ripreso nella fortunata biografia dantesca di Marco Santagata e così dai letterati è passata agli scienziati. Prima Giuseppe Plazzi, con un articolo su Sleep Medicine; poi un team di Zurigo, secondo il quale la descrizione dell’incontro con le tre fiere all’inizio dell’Inferno potrebbe rappresentare una dettagliata descrizione ante litteram di una “reazione combatti o fuggi” causata dalla narcolessia e suscitata dall’ansia. Dagli scienziati l’idea è tornata ai letterati con il “marchio di qualità” della scientificità.
Il problema principale di questi studi scientifici, tuttavia, è l’incapacità di distinguere tra fenomeni e descrizioni dei fenomeni. Una buona teoria scientifica deve essere coerente e deve “salvare” i fenomeni, cioè spiegarli senza annullarli. In questo caso, gli unici fenomeni sono i versi di Dante, che però non sono fenomeni in senso stretto: non sono apparenze, ma la descrizione di ciò che appare. Quindi, una teoria basata su questo particolare tipo di fenomeni deve procedere in modo diverso da una che si occupa di fenomeni naturali. Presumo che un neurologo, prima di emettere una diagnosi di narcolessia, debba essere ragionevolmente certo che i sintomi siano stati osservati correttamente e che il margine di errore sia ridotto; e accertarsi che non dipendano da condizionamenti esteriori. I sintomi descritti da Dante – gli svenimenti, l’incontro con le fiere, ecc. – sono stati invece esaminati come fenomeni naturali, senza tenere conto della loro matrice letteraria. Magari un giorno qualcuno fornirà prove scientifiche più solide. Nel frattempo, dobbiamo ammettere che delle malattie di Dante (a parte un problema visivo di cui lui stesso riferisce) non sappiamo nulla.
Ciò non vuol dire, ovviamente, che la psichiatria e la psicologia non abbiano nulla di interessante da dire su Dante. Ma più che dell’individuo dovrebbero occuparsi delle opere. Faccio un solo esempio. I commenti al sonetto Un dì si venne a me Malinconia, dove si mette in scena l’incontro allegorico con le personificazioni di Malinconia, Dolore, Ira e infine Amore che annuncia al poeta la morte della donna amata, hanno chiarito che la malinconia di cui parla Dante è una cosa diversa da quello che intendiamo oggi. Ma c’è un aspetto estremamente interessante che negli studi danteschi è rimasto abbastanza in ombra e che varrebbe la pena provare a chiarire: il nesso tra lutto e malinconia, esplorato, come i vostri lettori sanno benissimo, già da Freud. E non per postulare una malattia del Dante storico, ma per ragionare sul modo in cui il poeta rappresenta in versi un contenuto latente del quale poteva intuire la profondità. Certo, nella ricerca del contenuto simbolico della poesia di Dante si dovrà comunque ricordare che, come diceva Gombrich, l’arte era al servizio del contenuto simbolico, e non questo al servizio dell’arte.
II
MP: Pensa che Dante torni sui suoi passi per ricalibrare a seconda delle esigenze del momento la propria opera (così è stato autorevolmente detto, che egli forse abbia fatto nella Vita nova) e che le eventuali resistenze che non riesce ad appianare le sconti passivamente suo malgrado; oppure pensa che Dante non solo accolga resistenze e contraddizioni, ma che in alcuni casi le esponga, se non addirittura le enfatizzi o comunque non cerchi di dissimularle? In altre parole, crede che le incongruenze e perfino le contraddizioni nella sua opera siano soltanto gli effetti collaterali di una imperfetta limatura mito-biografica; oppure, almeno in parte, siano l’assunzione di una modalità di «parlare di sé» che include anche ciò che il lettore troverebbe inverosimile, cioè “storico” anziché “poetico”, secondo la nota distinzione introdotta da Aristotele?
MG: Dante accoglie di certo resistenze e contraddizioni. Anzi, forse in una certa misura le crea. Uno degli episodi più importanti della Vita nova è quello della donna gentile, la consolatrice per la quale Dante rischia di mettere da parte la devozione per Beatrice. Noi non sappiamo se questa donna è esistita e ignoriamo le ragioni profonde per le quali tale figura possa essere stata inventata, ma sappiamo che già i trovatori avevano spesso messo in scena il “nuovo amore rifiutato”, una nuova passione che distoglie il poeta dall’amore per la prima donna e che serve a confermare e a dare maggiore valore al primo amore. Dante, tuttavia, declina il motivo in maniera originale perché la deviazione e il ritorno si collocano dopo la morte della prima donna.
Qualcosa di simile accade nella Commedia, dove le resistenze sono quelle di Dante-personaggio, che esita, sbaglia, prova pietà per i dannati e nel quale è così più facile immedesimarsi. Quelle resistenze servono al Dante-autore per rendere più reale il viaggio immaginario della Commedia, un po’ come accade nella tradizione delle visioni medievali: anche nella Visio Pauli, ad esempio, Paolo prova pietà per i dannati e viene esortato dalla guida (l’arcangelo Michele) a condannarli e a proseguire. Diverso il discorso per quanto riguarda le incongruenze e le contraddizioni. Ma c’è poi soprattutto un problema di corrispondenza tra vita e arte, tra biografia e racconto. Nella Commedia assistiamo a un processo di rilettura totale dell’esperienza biografica sia per ragioni ideologiche sia per ragioni di opportunità. Da un lato, dopo l’esilio e con più forza negli anni in cui Enrico VII tenta di affermare il proprio potere in Italia, Dante sviluppa un’ideologia imperiale (esposta nella Monarchia) che informa anche il poema sacro: solo l’imperatore può scacciare dal mondo la cupidigia e portare la pace universale necessaria affinché tutti gli uomini possano essere felici sulla terra. Dante rilegge quindi la propria esperienza passata in questa chiave, provando a tramandare un’immagine di sé come di un uomo da sempre al di sopra delle parti. Ma noi sappiamo invece che fu coinvolto nella macchina politica fiorentina dalla parte dei Bianchi. D’altro canto, dopo l’esilio, Dante ha bisogno di protettori e non esita ad avvicinarsi a contesti nei quali alcune delle sue esperienze passate potevano risultare scomode. E ha quindi bisogno di riscrivere, in parte, la propria storia.
Per quanto riguarda il parlare di sé, ciò che caratterizza Dante – e la letteratura italiana in generale a confronto con le altre grandi letterature europee: pensiamo almeno al protagonista del Canzoniere e del Secretum – è la presenza costante sulla scena di un personaggio che tende a coincidere con la personalità dell’autore. Dante supera la distinzione aristotelica tra storia e poesia perché nella Commedia tende a dissolversi l’aporia tra verità generale della poesia e verità particolare della storia. La Commedia è infatti il racconto in prima persona del viaggio fantastico di un individuo storicamente determinato, sovrapponibile alla personalità di Dante Alighieri fiorentino, che, come dichiara l’Epistola XIII a Cangrande della Scala (che io assieme ad altri studiosi ritengo verosimilmente dantesca), ha l’ambizione di rappresentare il destino di tutta l’umanità.
III
MP: «Passïon nova» nel componimento E’ m’incresce di me sì duramente, «Vita nova» o «nuova» come alcuni editori intendono per il libro giovanile di Dante (dove troviamo anche «novissima»), nel senso di evento inusitato, eccezionale. Sin dalla fase giovanile, «nova» è un aggettivo importante che segna passaggi cruciali nei quali il poeta ambivalentemente si trova nella situazione in cui qualcosa di estraneo viene ad abitarlo diventando così, in un certo modo, familiare senza tuttavia smettere di rimanere inusitato, eccezionale, estraneo. Detto in termini psicoanalitici potremmo definire questa ambivalenza fra estraneo e familiare dell’aggettivo «nova» con il termine di «perturbante». Nel caso di Dante, la contemporaneità del familiare e dell’estraneo in ciò che irrompe come “nuovo”, si esprime poeticamente nel duplice senso di qualcosa che accade, ma di cui non si riesce soddisfacentemente a comprendere e a dire (si pensi alla «mirabile visione» che lascia in sospeso la fine della Vita nova), e di ciò che pur se si riesce a comprendere e a dire non si riesce però a capacitarsi completamente che sia accaduto (si pensi alla vicenda in cui nasce la nuova poetica della «lode», con la «lingua che parlò come per sé stessa mossa»). Questa modalità che rimane aperta o sul lato del dire (fino all’ineffabile, di cui Dante anche nella Commedia fa esperienza) o sul lato dell’accadere, che ripetutamente denuncia l’impossibilità di un accordo ermeneuticamente definitivo fra memoria e biografia, fra autobiografia e storia, è qualcosa che Dante sconta passivamente oppure qualcosa che egli utilizza deliberatamente come risorsa poetica?
MG: Passione nova, vita nova, stilnovo: la novità è un tratto distintivo di Dante. Tuttavia, già i trovatori rivendicano frequentemente la novità e l’originalità del canto. Il poeta annuncia spesso di voler comporre una canzone nuova, nel senso di “componimento originale”. E in molti dei casi in cui si annuncia un simile proponimento la struttura formale è attestata in maniera esclusiva o per la prima volta. I trovatori e il loro pubblico ritengono che l’eccellenza di un poeta dipenda dalla capacità di comporre testi metricamente e stilisticamente originali. Ben prima dello Stilnovo, il legame tra i concetti di novità, varietà, piacevolezza e dolcezza del canto è già implicito nella teoria e nella prassi trobadorica. E i trovatori, come si sa, sono il principale modello poetico volgare di Dante. Ma la novità della Vita nova è qualcosa di completamente diverso: è la novità intesa come “miracolo” e “meraviglia”; è la novità della “buona novella”, del vangelo che narra la vita e la morte di Beatrice.
Ora, è vero che Dante afferma di continuo di non essere in grado di rappresentare adeguatamente il miracolo di Beatrice e le sue straordinarie qualità semi-divine; ma ogni volta, nelle Rime, raffina le modalità di rappresentazione e crea una poesia sempre più complessa e ardita. Un discorso analogo si può fare per la Commedia. L’impossibilità dell’accordo ermeneutico è evidente alla fine del Paradiso, quando Dante ci dice che al culmine della visione la mente è percossa da «un fulgore» e che all’«alta fantasia […] mancò possa». Ciononostante, il poeta è riuscito a mostrare la realtà dei tre regni ultraterreni, è stato in grado a toccare il Paradiso e ha avuto persino la sicumera di mettere per iscritto ciò che ha visto, che è l’obiettivo che Keats, in una famosa lettera del 1818, riteneva inattingibile per i poeti moderni. Da questo punto di vista, quindi, Dante è pienamente antimoderno. Certo, è chiaro che memoria e biografia, autobiografia e storia non possono mai accordarsi pienamente. Ci sarà sempre uno scarto, in ogni tipo di narrazione, che si tratti di un diario, di un’autobiografia, di auto-fiction o di un romanzo. Quello che però mi pare notevole in Dante è la tensione (irrisolta e problematica, è vero) verso la coincidenza di memoria e biografia, di storia e di autobiografia. A mio modo di vedere l’eredità della Commedia non sta solo nella lingua che parliamo ancora oggi (con le sue parole, immagini, metafore) e nei personaggi che hanno vitalizzato per secoli la poesia, l’arte e il teatro; sta anche in un modo di porre l’autore sempre sulla scena e di consentirgli di prendere parola direttamente, di ascoltare e giudicare i personaggi e i lettori e soprattutto di esprimere, esplicitamente e senza filtri, amori, odi, sensazioni, idee.
IV
MP: Nella sospensione misticheggiante alla quale si consegna la fine del «libello» della Vita nova, Dante sembra come anticipare di secoli il famoso silenziarsi, anch’esso misticheggiante, del Tractatus di Wittgenstein, secondo il quale «ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Come se il senso complessivo che «di soglia in soglia» (per alludere a un poeta moderno, qual è Celan, in cui memoria e storia si misurano serratamente con l’estremo, e ciò proprio a partire dalla possibilità di dire e non dire della lingua) un’opera come la Vita nova persegue dovesse manifestarsi compiutamente in un “dopo” che si colloca oltre gli stessi confini testuali del «libello» e da questo “dopo” (potremmo chiamarlo a questo punto après coup utilizzando un’espressione più marcatamente psicoanalitica) pretendere persino di reinstallarsi à rebours in essa per stabilirne origine o forma. In tal senso, si pensi al non ancora conchiuso dibattito sui titoli del «libello» e del «poema». Prendiamo il primo caso. Il «libello» nel corso del suo svolgimento ci informa soltanto che nel «proemio» sono trascritte le parole di un altro testo, ancorché virtuale, qual è il «libro della […] memoria», e cioè le parole della «rubrica» Incipit vita nova. Esplicitamente, senza Incipit,Vita nova come titolo del «libello» compare però soltanto après coup, in un altro successivo libro, cioè nel Convivio. Si può vedere qui l’attuazione di una strategia discorsiva che utilizza l’après coup per mettere in cortocircuito e, ambiziosamente cercare persino di abitare la cesura ove avviene l’eccesso o la carenza di contatto fra privato e pubblico, autobiografico e storico, tra quell’«io» e quel «noi» che Contini, sviluppando una celebre notazione di Singleton, definiva inseparabilmente, benché non uniformemente, con l’endiadi di «personaggio-poeta»?
MG: Dante ci interessa oggi per quello che non riesce o che rinuncia a dire soprattutto perché nel Novecento c’è stata anche una retorica del silenzio, una poetica dell’indicibilità. Ma molti acuti lettori si sono interessati a Dante per quello che è in grado di dire e di rappresentare. L’esempio più eloquente è quello di Thomas Mann, che in esergo al Doctor Faustuscolloca i versi iniziali del canto II dell’Inferno, quando Dante chiede aiuto alle muse e mette alla prova il valore della memoria che scrive quanto il poeta ha visto («O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate…»). Mann, in coincidenza perfetta con il narratore del romanzo, evoca Dante proprio per la capacità di raffigurare l’indicibile. E direi anche che l’analogia tra Dante e il pensiero mistico è solo apparente. Nella Commedia (e in Dante in generale), la persona e l’io non scompaiono mai. Per questo aspetto la poesia dantesca è quanto di più lontano si possa immaginare dalla mistica. Se è vero, come ha scritto Simone Weil, che i mistici «hanno sempre mirato a ottenere che nella loro anima non vi fosse più neppure una parte che dicesse “io”», Dante compie invece il viaggio ultraterreno per tornare al mondo e all’individuo. La sua concezione del “sacro” è del tutto differente da quella dei mistici. Dante che viaggia come “persona” nei regni ultraterreni e che nell’aldilà ritrova in gloria una donna “reale” come Beatrice non avrebbe compreso un’affermazione come questa, sempre di Simone Weil: «Ciò che è sacro […] è quello che in un essere umano è impersonale. Tutto ciò che nell’uomo è impersonale, è sacro, e nient’altro lo è». L’opera di Dante, l’opera più sacra della letteratura occidentale, è tutto fuorché impersonale. Al centro della Commedia sta la persona, la cosa più perfetta che ci sia in natura secondo la definizione di Tommaso d’Aquino.
Certo, tutto questo si verifica après coup, nel senso che Dante, come noi tutti quando raccontiamo o scriviamo il nostro passato, compie un’operazione ermeneutica che non si può ritenere oggettiva. E infatti Dante ricrea, rielabora, trasfigura gli eventi. Ma non si limita ad abitare quella cesura, la occupa interamente. La distanza tra io e noi, in un certo senso, per Dante non esiste. Il rapporto con il lettore non è mai neutro. La poesia di Dante è esattamente il contrario della “capacità negativa” di cui parla Keats per descrivere chi ha successo in letteratura come un uomo in grado – alla pari di Shakespeare – «di esistere nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio». Qualsiasi lettore della Commedia sa invece quanto impietoso sia il giudizio di Dante sul mondo intero, passato, presente e futuro. Ora, per quanto ne so il parallelo più stringente con la “capacità negativa” è la condizione di impersonalità del vertice di ascolto analitico di Freud, che mi pare si tenda oggi a declinare nella forma di “ascolto non giudicante”, la condizione di attenzione fluttuante in cui deve porsi l’analista nei confronti di ciò che affiora dalla narrazione del paziente, annullando le proprie convinzioni circa l’importanza e il significato manifesto dei contenuti e lasciando così emergere i nuclei di significato inconsci. Ebbene, se il lettore inglese può legittimamente identificare in Shakespeare un campione dell’ascolto non giudicante, quello italiano non può – o non dovrebbe – fare lo stesso con Dante. In Dante non c’è ascolto senza giudizio; l’ascolto è sempre giudicante. Il Dante-autore non si pone mai nei confronti dei suoi personaggi in una condizione fluttuante e non annulla mai le proprie convinzioni. Il giudice può di volta in volta essere Virgilio (quando all’inizio del viaggio il personaggio di Dante è ancora troppo coinvolto nelle cose terrene e prova compassione per i dannati), Dante-personaggio (che durante il percorso diventa sempre più consapevole del proprio ruolo) o Dante-autore, che giudica severamente l’umanità intera. Ma Dante, come ha scritto Jorge Luis Borges, «comprende e non perdona».
V
MP: A un certo punto nella Vita nova, Dante perde il saluto di Beatrice. La vicenda va avanti e tale ostacolo che impediva una comunione per lo meno poetica con lei, nell’episodio della svolta della poetica della lode, viene «sublimato», per dirla in termini psicoanalitici, nella rivelazione di un nuovo soggetto indistintamente personale e impersonale, cioè le «donne gentili» che hanno «intelletto d’amore». Un nuovo soggetto o interlocutore che, rivelando la capacità di intendere quello che accade nell’amore, è in grado di capire il poeta e di non mandare a vuoto, per così dire, le parole di lode rivolte all’amata, ma anzi di accoglierle e riverberarne così allo stesso Dante la «beatitudine». In questo episodio è come se la giustificazione di scrivere poesie in volgare per farsi intendere anche dalle donne (così Dante nel «libello» giustifica l’uso del volgare) fosse già trasmutata in qualcosa di molto più fondamentale che il semplice farsi intendere da qualcuno che riceve la poesia. Ben oltre il mero farsi capire, qui le donne diventano la stessa istanza evenemenziale del fare poetico, il soggetto che forma la comunità d’intenti, di un «intelletto» (termine tecnico della psicologia filosofica aristotelica), qual è quello dell’amore e della poesia, che non appartiene più disperatamente soltanto all’individuo rimatore o al massimo a un’eletta schiera di poeti maschi intenditori, i «fedeli d’Amore». Questo nuovo soggetto interlocutore («Voi», in posizione iniziale assoluta nel componimento) delle donne che hanno «intelletto d’amore» è riducibile soltanto a un’invenzione di Dante oppure riferisce anche di una «nova» dinamica storica in atto in cui le donne, almeno quelle di un certo livello sociale, emergono con un ruolo che va oltre quello delle convenzioni della lirica cortese?
MG: La poesia dei trovatori si definisce feudale poiché composta da uomini vissuti in una società strutturata in modo feudale le cui opere presentano una serie di caratteristiche che la integrano in quella situazione politica, gerarchica e sociale. Quando il trovatore definisce l’amata midons, letteralmente ‘mio signore’, o quando si proclama suo servitore, la correlazione tra realtà feudale e metafore amorose è esplicita e diretta: il rapporto di dipendenza stabilito con la donna è un doppio quasi perfetto di quello che il trovatore intrattiene con il signore o con il feudatario. La diffusione a livello europeo della lirica trobadorica rende tali metafore il principale strumento di espressione di poeti attivi in contesti anche molto diversi dalle corti del Midi francese. Per i poeti comunali dell’età di Dante il significato concreto di questo tipo di immagini è più sfumato, ma ha ancora un legame con la vita reale. Quel che si perde in concretezza viene recuperato in forza espressiva. In Dante e nei poeti del suo tempo è ancora attivo il valore simbolico del mondo cortese-cavalleresco, e la cultura e l’immaginario dei milites cittadini dell’Italia del Duecento e dei primi decenni del Trecento sono ancora paragonabili a quelli feudali delle corti occitaniche. Dante, nell’immaginare un “coro” di donne che assistono e partecipano alla storia d’amore con Beatrice, si allinea pienamente alla poesia dei trovatori e alla tradizione cortese, ricchissima di donne che leggono, scrivono e partecipano alla vita culturale. E non c’è motivo di pensare che dinamiche simili non si verificassero anche nella Firenze della seconda metà del Duecento, ovviamente solo in contesti ristretti e in ambienti economici e sociali molto elevati.
L’atto di rivolgersi alle «donne gentili» è quindi uno sviluppo del gesto del trovatore che, ad esempio, canta di politica o di virtù e indirizza il congedo della poesia alla “signora” della corte in cui si trova. D’altronde, come ricordava, è Dante stesso, nella Vita nova, a spiegare che la lirica romanza nasce in funzione delle donne che non erano in grado di intendere il latino. L’originalità di Dante, a partire dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, sta piuttosto nel fare dell’apostrofe alle donne il fulcro del componimento e poi, nella prosa della Vita nova, la ragione stessa del nuovo stile. Ma è anche vero che la novità della canzone sta soprattutto nella ricerca di un decoro stilistico e di una chiarezza formale che la separano nettamente dalla produzione lirica duecentesca. Ad ogni modo, bisogna considerare che tra la fine del Duecento e i primi del Trecento sono in atto grandi trasformazioni sociali ed economiche. Il pubblico che legge la Vita nova e le altre opere volgari di Dante diventa sempre più ampio, e ci sono ovviamente sempre più donne.
VI
MP: Se «il sonno della ragione genera mostri», secondo un noto adagio, nel caso di Dante potremmo azzardarci a dire che il sogno della ragione, cioè la Commedia, i mostri li fa emergere, sia dalla coltre dell’inevitabile resistenza e censura della coscienza (questione che riguarda il lato dell’«io» del «personaggio-poeta») sia dalla resistenza, se non censura, a ciò che le istituzioni sociali non ammettono si possa dire nel consesso pubblico (questione che riguarda il lato del «noi» del «personaggio-poeta»). Se si può contestare il senso di realtà, storicità e verità del contenuto del sogno, non si può per questo contestare che si sogni. Se si riuscisse ad ammettere che i pur esili riferimenti al sogno del «personaggio-poeta» che compaiono esclusivamente in apertura e chiusura del poema fossero effettivamente tali (su questo aspetto di recente è tornato a riflettere Casadei), si potrebbe dire che Dante li ha messi sulle soglie della sua opera per proteggere strategicamente la legittimità di tutto il suo discorso? E ciò proprio attraverso la licenza fornitagli dal sogno? Per proteggere il discorso da possibili censure che tra l’altro avrebbero potuto arrecare pericolo, data la delicata materia politica, religiosa e storica, se non addirittura cronachistica (ancora Casadei ha fatto addirittura un paragone con la serialità televisiva) di cui è intessuta la Commedia? Qui si chiede, in altre parole, se Dante non utilizzi la realtà del fatto di sognare come licenza che gli permette di avere agio di «fingere di non fingere», secondo l’arguta formula di Singleton, al fine di far emergere dall’atemporalità dei regni ultramondani, schermandoli di licenza onirica, lo scomposto tempo storico di questo mondo?
MG: La Commedia è un’opera non del tutto ortodossa proprio perché pretende di descrivere con esattezza ciò che accade dopo la morte. Ed è un’opera pericolosa perché Dante si propone esplicitamente di parlare male (e solo di rado bene) dei personaggi più importanti del suo tempo: papi, re, imperatori. E non si può negare che la Commedia sia stata talvolta percepita in conflitto con il pensiero etico, teologico, politico dominante. Tuttavia, a differenza della Monarchia, che come si sa fu messa al rogo e che probabilmente circolò soprattutto in ambiti imperiali, la Commedia fu letta da tutti: nobili, intellettuali, mercanti, religiosi. È interessante, ad esempio, che il testo del poema viene reimpiegato nelle prediche e nei trattati. Oppure che gli “estratti” di maggior successo, i frammenti trascritti isolatamente, sono il Padre nostro che apre il canto XI del Purgatorio e la preghiera alla Vergine dell’ultimo del Paradiso. Benché alcune delle sue opinioni siano, dal nostro punto di vista e da quello della Chiesa dei suoi tempi, eterodosse, Dante voleva essere ortodosso, e come tale veniva e viene spesso percepito. Tutti ricordiamo che il protagonista della Commedia, alla fine del poema, supera un esame di ortodossia e dimostra di sapere e di volere accettare consapevolmente i principali insegnamenti della Chiesa. Dante, in altre parole, non era contro l’istituzione, era contro le persone concrete che l’avevano allontanata dalla retta via. Non stupisce affatto, quindi, che in occasione del sesto centenario della morte nel 1921, Benedetto XV, nell’enciclica In praeclara summorum, definisca Dante «il cantore e l’araldo più eloquente del pensiero cristiano».
Inoltre, io sono tra coloro che continuano a pensare che la Commedia non sia il racconto di un sogno. Il poema abbandona infatti gli elementi più tipici della scrittura allegorica medievale e delle visioni: e mette da parte anche l’ambientazione in sogno. Prima di Dante, lo aveva già fatto Brunetto Latini nel Tesoretto, dove si narrano eventi reali e contemporanei e che infatti è stato ritenuto un precursore immediato della Commedia. Ed è reale anche il racconto del Fiore, un’opera che se non è di Dante a Dante è comunque molto prossima e che imitando il Roman de la Rose rimuove appunto la cornice onirica. Ma, soprattutto, è reale la discesa agli Inferi dell’Eneide, che possiamo considerare, accanto alla tradizione medievale delle visioni dell’aldilà a partire dalla Visio Pauli, l’unico vero modello strutturale della Commedia. E Virgilio, come farà poi Dante, fa molta attenzione a precisare che la discesa di Enea è un privilegio concesso a pochi, voluto dal cielo. Insomma, in Dante il motivo del sogno è un relitto, un fossile cui l’autore, forse, allude per superarlo. Il protagonista si smarrisce infatti in uno stato di torpore che già alcuni degli antichi commenti spiegano come metafora di una condizione peccaminosa e compie un viaggio reale che a tratti, per esempio nella visione finale di Dio, ha comprensibilmente l’aspetto di un sogno, ma che sogno non è. Si può affermare quindi che quella resistenza alla realtà (o censura) agisca al limite su molti dei primi lettori e su alcuni dei moderni, i quali, influenzati dall’esemplarità della tradizione medievale, interpretano il poema come una visione in sogno annullando così l’istanza di realtà della Commedia. È interessante, ad esempio, che Boccaccio e Petrarca, imitando la Commedia, compiono un passo indietro e restano legati fortemente alla tradizione: tanto l’Amorosa visione quanto i Trionfi sono visioni in sogno del tutto sovrapponibili al Roman de la Rose. Come si sa, ciò che separa la Commedia dalla letteratura medievale è il realismo della rappresentazione: i regni infernali sono reali perché è reale la geografia, sono reali gli spazi, le misure, i tempi, i fenomeni fisici e atmosferici; uno dei maggiori sforzi di Dante sta nell’immaginare come sarebbe l’aldilà se fosse vero. E l’effetto di realtà è ancora più vivido proprio perché Dante si libera dal sogno per far emergere la ragione.
Lascia un commento