1. Il 15 maggio 1921 si svolgono le elezioni più insanguinate della storia d’Italia, le elezioni che sanciscono la fine del voto libero. E il 1921 è un anno di attentati che cambiarono il volto del paese e, più in generale, un momento di cesura per l’avvento del fascismo. Alla fine del ’21 c’è ormai in Italia un movimento armato con migliaia di militanti che sarebbe giunto al potere attraverso assassini, persecuzioni, esili e violenze contro ogni tentativo di opposizione.

Il 29 ottobre 1921 parte da Aquileia un convoglio che conduce nella capitale la salma del Milite ignoto, il soldato scelto per rappresentare la tragedia della guerra e dei morti in battaglia senza degna sepoltura. È un’altra marcia su Roma, con migliaia di persone che seguono il milite all’Altare della Patria il 4 novembre, nel terzo anniversario della vittoria nella Prima guerra mondiale. È questo, forse, il culmine della cerimonialità dell’Italia liberale, incentrata sulla religione della Patria, con la nazione riunita nella celebrazione dell’anonimo sacrificio di migliaia di giovani. Ed è anche un rito di passaggio verso un’altra Italia. 1
Nel 1921 c’è però un altro evento, meno noto ma altrettanto simbolico per la storia della ricezione di Dante. Nel 1936, in occasione dell’inaugurazione della “zona dantesca” a Ravenna, Giuseppe Frignani (federale e poi banchiere), ricorderà i giorni del sesto centenario della morte del poeta, il 12 settembre 1921: «Migliaia di giovani, ordinati e armati, sfilavano davanti alla tomba; Dante accolse il loro grido, veemente e possente: “A Roma”. Un anno dopo la meta invocata era raggiunta, e da Roma Mussolini iniziava la sua opera prodigiosa di costruttore d’impero». 2 In altre memorie si parla invece di un omaggio a Dante sotto il segno dell’impresa di Fiume di Gabriele D’Annunzio, che infatti fu coinvolto nella progettazione delle celebrazioni. Il fascismo non poteva non utilizzare il mito di Dante, che era stato già riletto e rifunzionalizzato dal Risorgimento e dal ghibellinismo ottocentesco in funzione nazionalistica e anti-papale. 3. Già alla fine del Settecento, e poi soprattutto ai primi XIX secolo, con la riscoperta romantica delle origini medievali e romanze, Dante diviene infatti il simbolo di una nazione in cerca dell’unificazione, di una patria che esiste principalmente nella lingua e nella letteratura. 4 Nel 1921 Dante resta legato a questo aspetto politico: c’è un Dante risorgimentale, un Dante fascista, un Dante cattolico. E inoltre le celebrazioni del sesto centenario si svolgono in un’Italia violenta, appena uscita dalla guerra.
2. Le iniziative del ’21 furono molteplici e prendono avvio a Ravenna il 14 settembre del 1920 con un discorso del ministro della pubblica istruzione Benedetto Croce rielaborato poi ne La poesia di Dante – il libro più importante pubblicato nell’anniversario, che segna una svolta nella storia della critica dantesca. Croce distingue tra culto esterno – monumenti, edifici, edizioni critiche, lavori di varia erudizione – e culto interno, incentrato «sulla relazione vera e salutare dei nostri spiriti con lo spirito di lui». 5 Differenzia poi il Dante simbolo e ideale dal Dante poeta, che è quello cui a suo giudizio dobbiamo accostarci, perché la poesia è elemento necessario della vita umana. Dante, secondo Croce, si deve leggere per nostra letizia, sottratto all’ideologia, al simbolo e alle determinazioni concettuali. Croce sa che «non c’è nel mondo altra concordia che quella discorde», sa di essere un uomo di parte che ha «assegnato il [suo] posto di combattimento». Ma «con pari saldezza di convinzione» ci dice «che nella poesia noi ci risentiamo veramente uomini e fratelli, e, divisi come pur siamo dalle tendenze politiche e sociali, cozzanti tra noi violentemente, ci riuniamo in essa come in un tempio e riacquistiamo la coscienza che, volendo in apparenza cose diverse ed opposte, in sostanza tutti sentiamo le stesse cose, vogliamo tutti lo stesso, noi creature mortali, e tutti lavoriamo allo stesso fine». 6 Per questa ragione, quando deve caratterizzare la Commedia nel confronto con la letteratura precedente, Croce sceglie un Dante contro la guerra, liberato dal Medioevo: «Non c’è più in Dante – scrive – il medio evo, il crudo medio evo, così quello delle feroci ascesi come l’altro fiero e allegro battagliare: ché mai forse niun altro gran poema è, come quello di Dante, privo di passione per la guerra in quanto guerra, delle commozioni che accompagnano la lotta militare, il rischio, lo sforzo, il trionfo, l’avventura. L’epopea medievale appena vi romba da lontano […]. In cambio dell’ascesi, vi si trova la fede schietta, rafforzata da pensiero e dottrina, in cambio dell’ardore guerresco, l’ardore civile. Queste, e non più quelle cose, appartenevano all’età sua, all’Italia del suo tempo, o, a ogni modo, appartenevano alla sua coscienza e formavano oggetto della sua continua e intensa sollecitudine, della sua umana passione». 7
Questa caratterizzazione di Dante, solo in parte condivisibile, appare concepita in funzione della storia contemporanea. In un’Italia colma di violenza, Dante è il poeta che rifiuta la guerra. Si intravede qui il dramma dell’intellettuale che si accorge che «l’ardore guerresco», «la feroce ascesi del crudo medio evo» appartengono ancora pienamente alla sua età. Alla luce del contesto storico appare infatti molto chiara la volontà di sottrarre Dante all’appropriazione da parte del fascismo, al culto della guerra e della violenza che nel 1931 avrebbe indotto Benito Mussolini a riconoscersi nella «passione faziosa» del poeta, nella sua «implacabilità», perché «Dante non perdonò ai suoi nemici nemmeno quando li incontrò all’inferno!». 8 Si spiegano anche così gli attacchi a Croce del ’21, che sono in realtà rivolti al filosofo antifascista. 9
Tuttavia, nelle parole di Croce si può leggere forse anche l’intenzione di allontanare Dante dal mondo cattolico. L’enciclica In preclara summorum di Benedetto XV del 30 aprile 1921 è infatti dedicata a Dante e rappresenta il momento più rilevante di un lungo e tormentato processo di riacquisizione della figura e dell’opera dantesca da parte della Chiesa. Nell’enciclica Dante non è ovviamente il profeta della patria degli uomini del Risorgimento, ma un poeta cristiano che ha cantato «con accenti quasi divini gli ideali cristiani dei quali contemplava con tutta l’anima la bellezza e lo splendore, comprendendoli mirabilmente e dei quali egli stesso viveva». 10
Altrettanto distante dal Dante di Benedetto Croce quanto da quello fascista e cattolico c’è il poeta di cui Piero Gobetti parla ai commilitoni mentre presta servizio militare a Torino nel 1921. 11 Gobetti rifiuta le orazioni pretenziose e le smaglianti commemorazioni per i poeti nei giorni anniversari: «la poesia non conosce date ma vive nello spirito solitario di chi la sente, e non si piega ad ammirazioni collettive, paga di regnare sovrana dove c’è intimità e calore d’ispirazione». Si commemora Dante leggendolo; nella sua arte unica, che «rappresenta soltanto se stessa» si ritrova il dramma di uomo medievale «preso nel sistema ferreo del dogmatismo che professa, invano anelante a nuove esigenze», la cui epica espressione sta «in una superiore capacità contemplativa». L’angoscioso dissidio di Dante culmina «in serena superiorità del poeta col filosofo», perché «nel suo entusiasmo mistico egli è poeta dell’ordine». Dante è la negazione «della malattia della letteratura che ci ha tenuti oppressi e ancora ci opprime»; la vera rinascita dell’anima nazionale si è compiuta infatti con anime dantesche come Baretti, Alfieri, Gioberti e Balbo. Dante rappresenta quindi per Gobetti soprattutto le virtù spirituali, la passione sociale, la vigorosa disciplina etica «che fa della vita una dura e serena esperienza di piena responsabilità»; quella «che noi ci proponiamo di realizzare nella vita dell’esercito, Dante ha voluto e imposto ai popoli eroici». Se il suo pensiero si compie nello spirito di ciascuno, «commemoreremo Dante in modo veramente dantesco». Tutta la nuova Italia si raccoglie attorno a lui: l’opera dantesca non pone solo problemi estetici ma morali e filosofici. Dante, infatti, «elabora in filosofia i dissidi del cristianesimo e li compone in unità chiara e distinta», «rappresenta i venti secoli della storia della Chiesa in tutta la loro virtù creatrice» e per questo i cattolici vedono in Dante la sintesi del loro spirito». Ma non si può ridurre Dante al «cattolicismo», poiché in lui è implicito il nuovo mondo, c’è già la profondità classica, è tomista e aristotelico, classico e cristiano, anzi più che classico e più che cristiano», «perché ha superato i limiti delle due concezioni, false tutt’e due nella loro unilateralità». E il trattato sulla Monarchia – rimasto nell’Indice dei libri proibiti fino al 1881 – per Gobetti è la prima consacrazione dell’autorità civile, «concetto che condotto alle sue ultime conseguenze farà crollare per sempre l’autorità dei pontefici». Nella Monarchia non c’è ancora lo Stato che nega la Chiesa, ma lo Stato che si afferma indipendentemente dalla Chiesa: «la via a Machiavelli è aperta». Dante ha presentito non l’Italia, quanto lo Stato; una nuova realtà, la «vita superiore dei cittadini organizzati». L’immagine – laica e liberale – di Dante profeta dello Stato è destinata a restare minoritaria in un’Italia che vorrà invece ritrovare nell’opera dantesca il preannuncio della Patria o persino dell’avvento del Duce.
3. L’episodio più significativo e storicamente rilevante del sesto centenario è tuttavia la pubblicazione dell’edizione completa delle opere a cura della Società Dantesca Italiana. La fondazione della Società nel 1888 è una tappa fondamentale per la storia culturale del nostro paese; l’Italia si metteva così al passo con gli altri grandi paesi nei quali esistevano già società di studi dedicate a Dante Alighieri. La Società si prefigge fin da subito di contribuire alla realizzazione delle edizioni critiche delle opere dantesche. Tra i molti insigni studiosi che guidano la Società nei primi decenni (Alessandro d’Ancona, Pio Rajna, Ernesto Monaci) assume un ruolo cruciale Michele Barbi (1867-1941), il più importante filologo italiano della prima metà del Novecento. Barbi, cui si deve l’edizione tuttora di riferimento della Vita nova, ha impostato i lavori sull’insieme delle opere dantesche in seno alla Società e ha concepito l’edizione del ’21, che offre tra l’altro per la prima volta testi critici affidabili – benché privi di apparato – delle Rime e della Commedia, nonché una sistemazione critica complessiva che manterrà la propria autorevolezza per tutto l’arco del Novecento. Tutti gli studi critici e filologici moderni ripartiranno dall’edizione del 1921 e dalle linee guida stabilite da Michele Barbi.
Per Barbi e la sua scuola la filologia non è disgiunta dall’interpretazione. È quindi altrettanto significativa la fondazione, nel 1920, della rivista Studi danteschi. Il primo numero si apre con una “dichiarazione di principi” intitolata I nostri propositi, firmata da Barbi, che dirige la rivista fino alla morte nel 1941. 12 L’intento degli Studi non è «accrescere la già sovrabbondante congerie delle dissertazioni e delle note che prolungano all’infinito, senza novità di dati e di vedute, stravecchie questioni», ma di selezionare, scegliendo le cose migliori fatte fino a quel momento e concentrandosi sulle questioni più utili da risolvere: «far conoscere della letteratura dantesca dei secoli scorsi quello che meriti diffusione e giovi a metter lo studioso di Dante in condizione di adempier meglio il suo ufficio», dando «notizie utili e nuove, desunte dalle fonti prime». E soprattutto combattendo «pregiudizi tradizionali» e provando a eliminare gli errori che si erano accumulati nei secoli, sia sul piano dell’interpretazione sia su quello dell’edizione dei testi («togliere errori di fatto e d’apprezzamento, risalendo, attraverso i copiaticci, ai documenti originali»), per ritornare così «alla parola di Dante rettamente interpretata col sentimento storico dei tempi, con la visione compiuta di ciò che fu nel pensiero e nell’anima di lui nei vari momenti della vita». E contribuire quindi, con nuove e approfondite indagini, a una «illustrazione più sicura e precisa della vita e delle opere». L’obiettivo principale è «render comune una solida cultura dantesca, o almeno mostrare la necessità di tale cultura». Gli Studi intendono riassumere i progressi compiuti, dare informazioni sintetiche, accertare fatti, provare verità e accogliere «qualsiasi trattazione che valga a mettere in luce una piega dell’anima di Dante, a svelare un segreto della sua arte, a far sentire una nota della sua poesia». E dove necessario attualizzare, poiché si tratta, nel caso di Dante, «di opere delle quali non si può oggi, e comunemente, avere la immediata intelligenza e la netta percezione estetica».
Ma la dichiarazione di intenti non è neutra e propone un’interpretazione forte dell’opera dantesca. La «potente personalità di Dante», il cui studio merita di figurare accanto a quello «delle dottrine e del Medioevo», ha assorbito molto «dello spirito medievale», ma molta parte «ne ha anche trasformato». Dante, infatti, «è uno spirito singolarmente attivo e originale: non basta cercare il pensiero degli autori da lui preferiti per conoscere il pensiero suo e spiegare le sue figurazioni poetiche». Si deve penetrare a fondo nella sua «vita interiore» e allo stesso tempo precisare al meglio i fatti di quella esteriore (benché sia «la vita interiore», per Barbi, «quella che alla comprensione di Dante più importa»). È una ricerca delicata, per la quale occorre sia «finezza nel dedurre da ciascun’opera lo stato d’animo in cui l’autore si trovava nel momento della composizione», sia «accortezza nel valersi di testimonianze relative a un medesimo oggetto che si abbiano in opere di tempi diversi, nate sotto diversa ispirazione»; per non confondere «ciò che avvenne nella realtà dei fatti, e ciò che Dante, con la libertà sua di poeta, volle far credere nei vari momenti».
Michele Barbi – un intellettuale perfettamente organico al regime, che riceve il premio Mussolini dell’Accademia d’Italia nel 1935 e la Benemerenza della Educazione nazionale nel 1941 – è una figura centrale della cultura italiana anche perché riesce a capire, prima e meglio dei contemporanei, quali siano le priorità degli studi filologici e letterari del suo tempo ed è in grado di organizzare il lavoro collettivo: «Bisogna reagire; bisogna togliere l’illusione che è in molti, che il Medioevo sia ormai tanto conosciuto da poterne discorrere così francamente come fra i dantisti si fa. Tolta l’illusione, gli studi si faranno, è da sperare, più larghi e profondi». In sintesi, la poesia di Dante «si è cominciata veramente a intendere quando si è preso a studiare seriamente la sua età». E per questo, alla fine dei Propositi, Barbi lascia la parola a Ugo Foscolo citando il Discorso sul testo della ‘Commedia’ del 1825 (cap. cxl): «la osservazione diligentissima della storia […] guasta i magici incanti degli altri poeti; ma Dante quanto più è guardato da storico, tanto più illude e sorge mirabile come poeta».
In un’Italia attraversata dalla violenza fascista, dove la guerra non è ancora storia ma vivida memoria, dove il culto di Dante non si sottrae all’ideologia e alla politica, l’eredità più duratura delle celebrazioni del 1921 si costituirà nel corso del Novecento a partire dagli studi storici e filologici.
[Questo articolo è già apparso nel catalogo della mostra bibliografica Dante a Porta Sole. Dai manoscritti a Dante pop (Perugia, Biblioteca comunale Augusta, 16 dicembre 2020 – 30 novembre 2021).]
Notes:
- Cfr. Miguel Gotor, L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon, Torino, Einaudi, 2019, p. 52. ↩
- Cfr. Fulvio Conti, Il Sommo italiano. Dante e l’identità della nazione, Roma, Carocci, 2021. ↩
- Cfr. Carlo Dionisotti, Varia fortuna di Dante, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 255-303. ↩
- Cfr. Stefano Jossa, Politics vs. literature. The myth of Dante and the Italian national identity, in Dante in the long Nineteenth Century. Nationality, identity, and appropriation, a cura di Aida Audeh, Nick Havely, Oxford, Oxford University Press, 2012. ↩
- Benedetto Croce, La poesia di Dante,a cura di Giorgio Inglese, con una nota al testo di Gennaro Sasso, Napoli, Bibliopolis, 2021 (ed. or. 1921). Il discorso di Croce fu riprodotto integralmente da alcuni quotidiani, ad esempio il Giornale d’Italia e il Resto del Carlino del 15 settembre (lo nota M. Barbi, Benedetto Croce e la critica dantesca, in “Studi danteschi”, vol. II 1920, pp. 160-61. ↩
- Croce, p. 233. ↩
- Croce, p. 238. ↩
- Ludwig, 2000 = Emil Ludwig, Colloqui con Mussolini, prefazione di Indro Montanelli, Milano, Mondadori, 2000, I ed. 1932, p. 166. ↩
- Luigi Scorrano, Il Dante “fascista”. Saggi, letture, note dantesche, Ravenna, Longo, 2001, p. 97. ↩
- Di Paola Dollorenzo, 2018 = Gabriella M. Di Paola Dollorenzo, Tracce dell’umanesimo cristiano: Dante e i papi umanisti. I manoscritti chigiani della Biblioteca Apostolica Vaticana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2018, p. 87. ↩
- Il discorso esce postumo in «Europa Letteraria» nel 1961 con il titolo Dante primo uomo moderno ed è poi pubblicato in Piero Gobetti, Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di Paolo Spriano, Torino, Einaudi, 1969, pp. 487-91. ↩
- Michele Barbi, I nostri propositi, in “Studi danteschi”, I (1920), pp. 5-16. ↩
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