Filologia e interpretazione. Per Costanzo Di Girolamo (1948-2022)
1. Il 13 ottobre 2022 è morto Costanzo Di Girolamo. Nato nel 1948, CdG è stato assistente incaricato di Filologia romanza all’Università di Napoli, lecturer di Lingua e letteratura italiana alla McGill University di Montréal, Assistant Professor di Letterature romanze medievali alla Johns Hopkins University di Baltimora, professore di Teoria della letteratura e poi di Filologia romanza all’Università della Calabria, di Filologia e linguistica romanza all’Università di Napoli Federico II dal 1989 al 2018 e infine emerito (traggo le informazioni dalla sezione I nostri antenati del sito della Federico II, ideata e curata proprio da CdG).
Dalla tesi di laurea sul poeta catalano Ausiàs March alla nuova edizione uscita nel 2021 de I trovatori, il suo libro più fortunato pubblicato per la prima volta nel 1989, CdG è stato soprattutto un filologo romanzo che come pochi altri – ma come Gianfranco Contini, Cesare Segre, d’Arco Silvio Avalle e Alberto Vàrvaro – ha toccato tutte o quasi tutte le letterature romanze e in particolare quella occitana, italiana, catalana e siciliana. Al di là dei contributi specifici e delle molte, importanti imprese editoriali e accademiche (basterà ricordare il Rialto e il Rialc, i repertori informatizzati della letteratura occitana e catalana antica; il volume de I poeti della Scuola siciliana dedicato ai Poeti della corte di Federico II; la fondazione della più autorevole rivista internazionale espressamente dedicata ai trovatori, le Lecturae tropatorum), l’attività scientifica di CdG è del tutto peculiare per due ragioni. In primo luogo, perché è stato tra i principali metricisti italiani: la Teoria e prassi della versificazione (1976), gli Elementi di versificazione provenzale (1979) e il recente Manualetto di metrica italiana (2021) sono riferimenti imprescindibili per gli studiosi e per gli studenti. E poi perché, fin dal periodo americano, come alcuni dei maggiori romanisti italiani CdG ha dimostrato uno spiccato interesse per la teoria letteraria – dalla Critica della letterarietà del 1978 agli Elementi di teoria letteraria del 1984 (in collaborazione con Franco Brioschi). Ciò che distingue tuttavia i suoi studi da quelli di Avalle, Segre e persino Contini è la difficoltà di classificarli in una stagione o in una tendenza (strutturalismo, neo-lachmannesimo e così via). Questa parte della sua produzione scientifica si può racchiudere in due categorie strettamente connesse: Tecnica e Teoria. Delle due, quella più importante è mio giudizio la Teoria. E poiché si tratta anche di quella meno nota mi pare utile provare a illustrarne le caratteristiche fondamentali.
2. Nel 2019, su impulso dei due migliori allievi, Paolo Di Luca e Oriana Scarpati, CdG ha riunito parte dei suoi saggi in un volume dal titolo Filologia interpretativa che è ad oggi lo strumento più efficace per conoscere al meglio l’interprete e il filologo (Edizioni di Storia e Letteratura). Nella Nota iniziale l’autore chiarisce il senso del titolo: «nella tradizione degli studi all’acribia e al rigore di alcune pratiche non ha corrisposto, il più delle volte, un pari impegno esegetico e nemmeno un adeguato interesse per l’interpretazione, senza la quale è impossibile ridurre o annullare la differenzialità, non soltanto linguistica, che presentano le opere del passato» (Filologia interpretativa, p. XI). La filologia che CdG chiama interpretativa, invece, «non si applica solo a luoghi specifici dei testi, non è solo al servizio del commento, ma può e deve rivolgersi […] all’intelligenza di opere, di generi, motivi, persino forme, contribuendo al contempo, ove sia il caso, alla messa a punto del testo» (Filologia interpretativa, pp. XI-XII). E deve inoltre «comprendere nel suo studio le abitudini interpretative delle comunità letterarie a cui appartengono gli autori, le quali saranno a loro volta oggetto di interpretazione» (Filologia interpretativa, p. XII). Dunque, se ci si pone non dal punto di vista della filologia ma da quello della teoria letteraria, «è solo alla filologia che può essere affidata la responsabilità che ogni interpretazione comporta» (Filologia interpretativa, p. XII). Se l’esigenza di una riunificazione di filologia e interpretazione è ormai avvertita da più parti (un capitolo cruciale di A che serve un’edizione critica? di Pietro Beltrami, uscito nel 2010, è dedicato ad esempio a Edizione e interpretazione), lo è molto meno il nesso tra filologia e teoria letteraria. Più volte, negli ultimi decenni, almeno a partire dalle Notizie dalla crisi di Cesare Segre, si è parlato di una stagione di crisi della teoria della letteratura che ha spesso determinato una fuga nella filologia, un progressivo richiudersi degli studi romanzi in una gabbia specialistica dove ciò che più conta è la tecnica. Ebbene, CdG si è interrogato più volte sulla natura di questa crisi e le sue risposte meritano di essere valorizzate. Ma, più in generale, nei suoi studi ha sistematicamente dimostrato in che modo possano convivere filologia e teoria della letteratura.
Le parole più lucide si leggono in un saggio del 1996 (Tendenze attuali della teoria della letteratura) dove CdG si confronta specialmente con le Notizie dalla crisi di Cesare Segre (1993): «Molti di noi pensano che riflettere sulla letteratura, fare teoria letteraria, non comporti l’elaborazione di procedure operative rigide a cui sottoporre i testi; non comporti cioè l’elaborazione di un ‘metodo’: il critico deve necessariamente sporcarsi […] con il fango che i testi portano con sé, senza fermarsi al livello epidermicamente linguistico e formale (come facevano i formalisti) e probabilmente senza ignorare (come hanno invece fatto i decostruzionisti) che i testi letterari hanno un significato che va compreso, discusso, perfino contestato» (Filologia interpretativa, p. 678). Oggi questa posizione può forse sembrare scontata. Eppure, se si pensa a quanto lentamente i manuali scolastici stanno rinunciando alle pesanti impalcature formalistiche fatte di esercizi di scomposizione del testo e se si considera che da più parti l’assenza di un metodo unico sia stata e sia ancora descritta come uno stato di crisi, le considerazioni di CdG appariranno ancor più lucide e isolate: «Tutto sommato, c’è da essere ottimisti. Forse è meglio la crisi, è meglio il dubbio di tante mal fondate certezze» (Filologia interpretativa, p. 678).
3. Ma che cosa significa, in pratica, che sia meglio il dubbio, che sia meglio la crisi? Significa, in primo luogo, che prima ci sono i testi e la storia e poi la teoria e i metodi. E vuol dire che senza un metodo unico, senza limitarsi o al solo dato linguistico e formale, senza dimenticare il significato dei testi e rinunciando invece a caratterizzazioni sintetiche e atemporali possiamo comunque scrivere la storia della poesia e della letteratura. E possiamo, forse, farlo ancora meglio.
Faccio solo pochi esempi. Di recente si è molto discusso di letteratura impegnata, a partire da un libretto di Walter Siti (Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura, 2021). Siti si occupa prevalentemente di letteratura (e cultura) contemporanea, ma nel finale si confronta anche con la Commedia di Dante, a suo giudizio è il testo più impegnato della letteratura italiana. È un’idea seducente e per certi versi condivisibile, a patto di intendersi sul significato di impegno. Perché la Commedia è senza dubbio un’opera che parla del tempo e che vuole avere un effetto sulla realtà, ma la voce di Dante pretende di risuonare nell’eternità, in una dimensione che appare incomparabile sia con la poesia storico-politica dell’epoca sia con la poesia impegnata del Novecento. L’impegno di Dante – se possiamo fidarci dell’epistola a Cangrande – è sì quello di chi vuole cambiare il mondo e rendere gli uomini felici in questa vita, ma pur sempre nella prospettiva dell’eterno. Dante vuole che gli uomini siano virtuosi e quindi felici, non vuole semplicemente dimostrare loro che è necessario schierarsi dalla parte dell’imperatore (per quello ci sono le lettere). Ciò detto, la Commedia impegnata di Siti è comunque più verosimile della Commedia dell’estetica crociana che pretende di discernere in Dante ciò che poesia non è e di sottrarre al poema, in nome di un’idea astratta e atemporale di Poesia, ogni legame con la sfera pratica (con l’impegno, direbbe Siti) e con la sfera speculativa (con la filosofia e la teoria politica, ad esempio, che tanta parte hanno nei versi di Dante). In La filologia dopo la teoria (2015) CdG spiega invece che rinunciando alla teoria e alle griglie interpretative si potrà di volta in volta ammettere (Filologia interpretativa, p. 693): 1) «che un’opera letteraria non vuole trasmettere nessun messaggio, che si consuma meravigliosamente in se stessa come un fuoco d’artificio», che è l’idea di poesia – comunque legittima – di Croce e di molti poeti del Novecento; 2) «che un’altra invece vive e sopravvive solo a condizione che l’autore riesca, pure a distanza di secoli, a comunicarci, semmai in maniera vibrata e polemica, le sue idee, direttamente e intenzionalmente e non per negazione o distrazione», come accade per tanta poesia didattica e di consumo, fin dalle origini delle letterature romanze; 3) « che un’altra ancora abbia la non tanto recondita finalità di modificare (o all’inverso di confermare, di rafforzare) il nostro modo di pensare e di agire», che è forse la ragione principale per la quale volevano essere letti e per la quale leggiamo ancora, per esempio, Dante e Bertolt Brecht.
Un’altra questione molto discussa negli studi romanzi è lo statuto dell’autore. In che misura l’io che parla nelle poesie dei trovatori, di Cavalcanti, di Dante e di Petrarca è sovrapponibile agli individui storici che conosciamo e dei quali possiamo avere nessuna, poco o molta informazione? Gli studiosi sono di solito molto cauti, e parlano molto spesso per questa ragione di “io lirico” e non di “io” tout court. CdG infrange quindi un tabu quando scrive: «Potrò averne anche abbastanza di dire l’io lirico fa questo o quello, se l’io lirico si chiama Bertran de Born, la cui biografia trova puntuale riscontro nelle sue canzoni: e se devo credere, come racconta, che un giorno è stato baciato da Riccardo Cuor di Leone in segno di perdono per il suo comportamento da barone ribelle, non ho motivi di credere che quando racconta di aver baciato una signora questa sia necessariamente un fantasma letterario che deve stare lì perché ci troviamo nel genere della canzone cortese; ma posso dirlo invece di qualche altro poeta, semmai anche della stessa epoca, e di nuovo così via…» (Filologia interpretativa, p. 693). Dipende, insomma. Dal poeta, da quello che sappiamo della sua biografia, del patto istituito col lettore. Se rileggiamo queste righe pensando a Dante non avremo forse più nessun motivo per parlare di “io lirico” e non semplicemente di “io” quando analizziamo la Vita nova o le Rime. Detto in poche, semplici parole: «la storia entra nella letteratura, quando entra, senza che il teorico possa costruire degli argini che la trattengano fuori» (Filologia interpretativa, p. 693).
Questa idea informa tutta l’attività critica di CdG. Un altro esempio particolarmente cristallino si trova in un saggio dedicato a Molt jauzions mi prenc amar, una canzone del primo trovatore, Guglielmo IX. CdG raccoglie prima di tutto, scrupolosamente, i principali giudizi critici, estremamente vari e difformi: la canzone è stata infatti interpretata di volta in volta come un inno alla gioia amorosa derivante dalla fin’amor, come un canto sull’amore senza peccato ben distante dai componimenti francamente osceni di Guglielmo IX e persino come un testo dalle forti implicazioni mistiche. CdG si dichiara distante da tutte queste interpretazioni «troppo perentorie, unilaterali e insufficientemente argomentate» (Filologia interpretativa, p. 4), poiché oggi si vede «nella fin’amor un oggetto in continua trasformazione, a cui sono stati assegnati valori anche molto differenti nel corso dei due secoli di poesia trobadorica». Fin qui CdG prende semplicemente atto degli studi più moderni sul concetto di fin’amor. Ma è il passo successivo quello più importante, perché si passa su un piano teorico generale: «Sicché questi tentativi di visioni generali e definitive possono essere abbandonati: siamo in tal modo anche più liberi di rileggere la canzone di Guglielmo senza ricorrere a griglie o modelli preconfezionati, cioè senza applicare ad essa, come a qualsiasi altro testo, pericolosi procedimenti deduttivi» (Filologia interpretativa, p. 4). Vale dunque per la teoria ciò che secondo ogni filologo moderno vale per le edizioni critiche: ogni testo è un caso a sé, i metodi e modelli sono utili ma devono soprattutto essere duttili.
4. Senza griglie e modelli preconfezionati si può parlare bene di molti argomenti, anche di quelli più frequentati dalle tendenze più in voga nella teoria letteraria contemporanea. Si può parlare, ad esempio, delle donne in letteratura. In uno dei saggi più belli della raccolta, Ausiàs March e le donne (1998), dopo aver esposto per grandi linea la teoria dell’amore del poeta catalano, una teoria che comprende in sé l’amore carnale, quello spirituale e quello umano, «fatto di spiritualità e di sensualità», CdG si pone il problema dell’atteggiamento di March nei confronti delle donne (l’atteggiamento «dell’io poetico o del personaggio, se si preferisce»), che si conforma, prevedibilmente, come misogino: «una misoginia laica, una misoginia cortese, che nasce proprio dall’esaurimento, dal venire meno del ruolo attribuito alla donna a partire dai trovatori fino a Dante e a Petrarca» (Filologia interpretativa, p. 343). La poesia di March è infatti una poesia «per così dire maschile», «destinata alla lettura individuale e non di gruppo». C’è però un aspetto linguistico non banale, cioè il significato del termine voler, da intendere in alcune occorrenze senza dubbio come «attrazione sessuale». In una poesia in cui si afferma che le donne non hanno cervello, il poeta spiega però che la sua donna è pari a lui «en calitat», ‘per inclinazione, natura’. E Qui CdG trova sorprendente «che il poeta dichiari di essersi messo al servizio del voler della dama, ed il voler è senza alcun dubbio «aquell delit / que.ls amadors de carn han llur esper» (‘quel piacere in cui gli amanti carnali sperano’). Ausiàs March concede quindi alla donna la libertà di desiderare, rendendola in tal modo uguale all’uomo, al poeta-amante: «il March maschilista e misogino […] si trasforma […] in uno dei primi poeti moderni che dà spazio alla sessualità femminile, nel momento in cui legittima il desiderio della donna come qualcosa di irrinunciabile nell’amore umano e lo chiede a lei come condizione stessa del proprio desiderio» (Filologia interpretativa, p. 351); una visione molto lontana da quella dei trovatori e dei poeti italiani, nonché «del tutto antitetica a quella del cristianesimo». La conclusione è che: «Se i trovatori […] hanno inventato l’amore in Occidente, forse Ausiàs March ha apportato ad esso alcune sostanziali correzioni, soprattutto nel senso di rendere la donna una protagonista dotata di iniziativa, un soggetto attivo» (Filologia interpretativa, p. 351). Si potrebbe aggiungere solo che in questa trasformazione hanno avuto un ruolo anche altri autori e altre opere (l’Elegia di Madonna Fiammetta di Boccaccio, ad esempio).
Ma ciò che conta è che senza griglie e senza teorie, a partire dai dati testuali e da minimi aspetti filologici e linguistici, si possa scrivere un capitolo di massimo rilievo della storia della letteratura europea. Se questo è un segno della crisi – per molti ancora in corso – della teoria della letteratura, «meglio la crisi […] meglio il dubbio di tante mal fondate certezze».