La fine di Pinocchio

1. Pinocchio è un romanzo che insegna come stare al mondo. Il burattino muore impiccato nella prima versione pubblicata sul «Giornale per i bambini» (la Storia di un burattino del 1881) e solo nell’edizione in volume del 1883 Collodi introduce una variante che giustifica la “risurrezione” e il prolungamento del racconto, di fatto non previsto e scaturito in ragione del successo dell’opera.



E nel finale della redazione definitiva (già uscita sul «Giornale» e poi più volte ristampata in vita dell’autore col titolo Le avventure di Pinocchio) Pinocchio si trasforma in un bambino in carne e ossa solo dopo aver appreso l’importanza del lavoro e della compassione nei confronti di chi se la merita (la Fata, non il Gatto e la Volpe). La struttura narrativa ha quindi una chiara impronta pedagogica. Inoltre, benché all’inizio parlasse di Pinocchio come di una “bambinata”, per la quale si augurava comunque un buon compenso, Collodi aveva idee ben chiare sul rapporto tra l’uomo e il ragazzo, tra il bene e il male, tra il cittadino e il buon selvaggio. Il primo bozzetto di Occhi e nasi, la fortunata raccolta pubblicata da Collodi nel 1881, lo stesso anno della Storia di un burattino, s’intitola Il ragazzo di strada. Qui, dopo una serie di caustici aneddoti sulle scorribande e i motti del ragazzo (ladro, bugiardo, ipocrita e spaccone), Collodi conclude: «Quant’anni ha il ragazzo di strada? Nessuno può dirlo con esattezza, e meno degli altri, lui. Per uomo, gli manca qualche cosa: – e per ragazzo, c’è qualche cosa più del bisogno». Pinocchio il burattino nasce da qui, da questi occhi e da questi nasi appena abbozzati, dall’idea di un personaggio che è meno di un uomo e poco più di un ragazzo e come tale procede necessariamente verso la morte o verso la trasformazione, verso il premio o la punizione.


2. Molto diversa è invece la chiave di lettura offerta nella nuova edizione a cura di Giancarlo Alfano (Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, A cura di G. A., BUR Rizzoli, Milano, 2022; «Nuove edizioni – Classici italiani. In collaborazione con ADI (Associazione degli italianisti)»; è uscita contestualmente nella collana Bur Deluxe un’edizione con illustrazioni di Roland Topor e prefazione di Francesco Bonami). Il Pinocchio di Alfano ha molti pregi: chiarezza espositiva e rigore scientifico, un’introduzione breve e limpida, una ricca bibliografia, un’ampia scheda dell’opera e un commento analitico che mette a frutto non solo la tradizione di studi, ma anche le reinterpretazioni letterarie e teatrali novecentesche 1). Vorrei qui però soffermarmi solo su alcuni punti critici dell’introduzione. Dopo aver ricordato un passo di Gordon Craig, attore, regista e teorico del teatro per il quale la marionetta, «nata dal legno, è contenta di obbedire alla sua natura e di rimanere legno», Alfano scrive: «Per quanto forte possa essere stata la tentazione pedagogica in Collodi, la sua opera sembra dare ragione all’intuizione di Craig ed esprimere quel medesimo sospetto nei confronti del rispecchiamento antropomorfico, quel che si potrebbe considerare una sorta di rifiuto del realismo» (p. 13). Quindi, benché non possa negare che alla fine il ragazzo si sostituisca al burattino, Alfano sostiene che l’autore rappresenti nel finale anche «una sorta di suicidio», notando come il burattino, in realtà, non si trasformi «fisicamente nel ragazzino perbene»: «il “suicidio” non implica la metamorfosi del pezzo di legno nel legno storto dell’umanità: il burattino resta accanto al bambino, insieme a lui, sia pure un po’ di lato» (p. 13). È vero: la carcassa del burattino, quando Pinocchio si risveglia ed è finalmente diventato un ragazzino, appare appoggiata a una sedia, col capo chino e le braccia ciondoloni. Ciò non vuol dire che rimanga accanto al bambino per sempre. L’immagine che Collodi sta impiegando è piuttosto quella dell’esuvia, il resto dell’esoscheletro dopo la muta, abbandonata e inutile perché c’è stata la metamorfosi finale. La conclusione della storia è dunque inequivocabilmente catartica e sublimante. Tutte le contraddizioni sono risolte. La battuta finale («Com’ero buffo, quand’ero un burattino! E come son contento di esser diventato un ragazzino perbene…») è l’esatto equivalente di “e vissero felici e contenti”, è l’happy ending tanto atteso dal protagonista e dai lettori.


3. Qual è allora la verità del testo? Secondo Alfano, «non è nella conclusione palingenetica» né nel «senso della fine»: «Per quanto paradossale, la morte per impiccagione o per umanizzazione costituisce il segno più chiaro della vocazione al movimento perpetuo, al divenire incessante di un personaggio configurato nella sua incompiutezza, di un personaggio senza parte, senza storia, una mera “ossatura” priva ancora della carne effimera che può concedergli il repertorio teatrale» (p. 14). Pinocchio, in quest’ottica, «non vuole finire», ma «abita una storia che deve in qualche modo terminare» (ivi). 

Alfano si tiene giustamente a distanza da formule vaghe e inadeguate come quelle offerte da Giorgio Agamben nel suo recente commento a Pinocchio (Einaudi, 2021), un’opera per la quale non ha alcun senso parlare di «indefinita natura» o «costitutivo disvivere». Eppure, neanche la lettura di Alfano mi sembra del tutto convincente. Innanzitutto, perché ho l’impressione che egli voglia attribuire a Collodi un’idea di romanzo polifonico e di personaggio incompiuto che è tutta novecentesca. Le avventure di Pinocchio non sono un’opera aperta, Pinocchio non è una figura irrisolta. Si potrebbe anzi dire che tutto il senso della storia sia nella ricerca della compiutezza, una ricerca che è tanto più interessante perché incerta, ondivaga, appassionante come per i protagonisti dei romanzi cortesi, complessi e incostanti benché diretti verso un fine ben preciso. Altrimenti sarebbe come dire che la verità della Commedia sta più nel personaggio peccatore del primo canto dell’Inferno che nel poeta-teologo che osserva e giudica l’umanità dopo aver assistito alla manifestazione del mistero trinitario in Paradiso. 

Ma questa pretesa verità incompiuta di Pinocchio mi pare inapplicabile al testo di Collodi anche per un’altra ragione. Una volta, parlando di Arancia meccanica, Stanley Kubrick ha affermato che «Uno degli errori più pericolosi che ha influenzato maggiormente il pensiero politico e filosofico è che l’uomo è essenzialmente buono, e che è la società a renderlo cattivo […]. Rousseau ha trasferito il peccato originale dall’uomo alla società, e questa visione ha contribuito in modo significativo a quella che credo sia diventata una premessa fondamentalmente errata su cui basare la filosofia politica e morale» (Bernard Weinraub, «Kubrick tells what makes A Clockwork Orange tick», The New York Times, 4 gennaio 1972, traduzione mia). Ed è facile, in effetti, leggere Arancia meccanica come una storia in cui, come in Rousseau, l’uomo è buono e la società è cattiva. Ma non era questa, chiaramente, l’intenzione del regista. Per Kubrick il film intende mostrare un personaggio che può scegliere di essere cattivo e che non è semplicemente piegato al male dalla società: «L’uomo deve poter scegliere tra bene e male, anche nel caso in cui scelga il male. Privarlo di questa possibilità di scelta significa renderlo qualcosa di subumano: un’arancia meccanica, appunto» (Tempi moderni: un’intervista a Stanley Kubrick, di Philip Strick e Penelope Houston (1972), in Stanley Kubrick. Non ho risposte semplici. Il genio del cinema si racconta, Minimum fax, Roma, 2007, p. 181). Pinocchio, come Alex, è corrotto e malvagio. Eppure, come ci accade col protagonista di Arancia meccanica, ne apprezziamo anche il candore, l’energia, l’intelligenza. Ma se il messaggio più profondo di Arancia meccanica è che una società repressiva è ingiustificabile persino di fronte a un individuo completamente perverso, quello di Pinocchio è che l’unico modo in cui il burattino può smettere di essere un’eccezione – meno di un uomo e poco più di un ragazzo – è trasformarsi in un «ragazzo come tutti gli altri» che ama e rispetta il padre, conosce la fatica del lavoro e sa distinguere tra il bene e il male. Sono idee antiquate, molto lontane dalla nostra sensibilità. Ma in questo, non in altro, consiste l’intenzione pedagogica di Pinocchio.

[Questo articolo è già apparso sul magazine “Lingua italiana” di Treccani.it l’11 aprile 2023.]